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ALLE ORIGINI DELL’ ARTE FARMACEUTICA – TRASFORMAZIONE DI ALCUNE PIANTE PER ESSERE USATE COME FARMACI. Seconda Parte del Dott. Luigi Giannelli –

L’ Oxymele.
DIOSCORIDE.
Dioscoride. “Materia Medica” – Libro V° – Cap. 15° (vers. Mattioli).
– Oxymele ( latino: Acetum Mulsum, ovvero in italiano “Aceto Melato”), si fa in questo modo:
cinque hemine di Aceto [ 1, 35 litri circa], una libbra di Sale comune [330 gr circa], dieci hemine di Miele [2,70 litri circa], cinque sestari di Acqua [2,70 litri circa], e si fa bollire insieme fino a dieci bollori (10); come si è raffreddato, si mette nei suoi vasi. Si crede che bevuto dreni gli Umori densi e viscosi [ovvero il Freddo e Umido condensato, come il muco bronchiale patologico] e che giovi nella sciatica, nell’ epilessia, nei dolori articolari. Combatte il veleno dato dal morso della Vipera detta “Sepa” (11), gli effetti dell’Oppio e quelli del’Ixia (vedi nota 6).
Gargarizzato, giova nel mal di gola. -.
GALENO.
Mattioli ci fa sapere che secondo Galeno, nel IV° libro del “Arte di conservare la salute”, per fare l’ Oxymele ci sono tre modi, ma egli non usa il Sale, come dice Dioscoride:
– 1° – Per fare l’Oxymele si prendono una parte di Aceto e due di Miele schiumato (12) [parti in volume], e si fanno cuocere insieme a fuoco lento, finchè le qualità di entrambi non diventino una cosa sola, e così facendo non si sente più alcuna “crudità” dell’Aceto (13).
2° – Altro modo, più veloce: si prendono una parte di Miele e quattro parti di Acqua [sempre in volume], e si cuociono insieme a fuoco lento, finchè schiumando continuamente, finisca di fare la schiuma (14). Il che si fa più presto o più tardi, a seconda della bontà del Miele. L’ottimo è quello che fa poca schiuma [scarsa presenza di sostanze proteiche, potremmo dire oggi] e che presto si cuoce; il meno buono è quello che fa molta schiuma e si cuoce più tardi [maggior presenza di proteine, ma anche di Acqua!], dato che se ne va in schiuma un quarto di esso. Una volta che il Miele è schiumato, vi si aggiunge la metà del suo peso [stavolta si ragiona con il peso e non con il volume; perché è dichiarato] di Aceto e si cuoce finchè tutte le qualità siano unite, e che l’Aceto [ma ormai mescolato e cotto con il Miele], non abbia più nulla di crudo.
3° – Si fa anche mettendo tutte e tre le cose predette insieme a bollire: si prende una parte di Aceto, due di Miele, quattro di Acqua [non essendo dichiarato il peso, si intende in volume] e si cuociono insieme fino a consumarne la terza parte o la quarta [del volume totale], schiumando di continuo.-.
A questo punto Galeno, sempre di seguito, vuol dare un altro suggerimento, che secondo noi rappresenta un 4° metodo!
– Volendolo più potente, si mettono Aceto e Miele in parti uguali [quindi di più di Aceto].-
MESUE’
Mesuè (15), probabilmente (visto che Mattioli non cita la fonte esatta) tratto dall’ opera più importante che è giunta fino a noi, anche attraverso traduzioni edite tra il XVI° ed il XVII° secolo, il cosiddetto “Collectorio Universalissimo delle Opere Mediche”, ove nella prefazione lo stesso Mesuè ci fa sapere che le sue formule vengono da gli Autori più antichi. “Collectorio” ovvero raccolta delle opere.
– L’Oxymele si fa con l’Aceto, con l’Acqua e con il Miele. L’Acqua la si mette affinchè, cuocendo lungamente, si dissolvano le parti che potrebbero causare meteorismo (16) ed anche perché si possa far schiumare meglio ed infine la sostanza [la materia fondamentale] di questo medicamento divenga più sottile, si diffonda più agevolmente per tutti gli organi del corpo. Il Miele si mette affinchè possa espellere la Flemma [ l’aspetto umano-animale dell’Elemento Acqua, Fredda e Umida, ovvero le varie forme di mucosità e i liquidi organici in generale, sia fisiologici sia patologici].
Infatti, dall’Aceto e dal Miele mescolati insieme [vedi anche quello che dice Galeno dell’Aceto], vi nasce una terza virtù, che non si trova né nell’uno né nell’altro, quando sono separati. E questa virtù è efficacissima e certissima per alleggerire, fluidificare e dissolvere le superfluità/mucosità dense e viscose [la Flemma, Fredda e Umida perversa; superfluità poiché si tratta di materie che comunque stazionano sulle superfici di organi e mucose] cronicizzate, generate nello stomaco e nel fegato. Ma agisce anche su quelle “scorse” – greco: “rheuma” e “catarrho” – nelle articolazioni e che generano le febbri croniche, poiché le fluidifica e le matura [le fa uscire, quindi libera il corpo da esse. Si prepara con una parte di Aceto, due di Miele e quattro di Acqua [vedi il metodo 3° di Galeno]; si cuociono prima l’Acqua con il Miele, finchè non cessi la schiuma, poi si aggiunge l’ Aceto e si fa bollire ancora, togliendo la schiuma se si presenta ancora. Se ne somministrano da una fino a tre once (da 27 gr circa a 80 gr circa).-.
Altri prodotti fatti con l’Aceto.
L’ Oxalme o “Salamoia Acetosa”.
Dioscoride la tratta subito dopo l’Oxymele, sempre nel V° Libro della “Materia Medica”, Cap. 16° (vers. Mattioli).
La descriviamo in parte, poiché, già ai tempi del Mattioli, era in disuso. Quindi la ricordiamo per amore di Storia!
– Se ne fa lavanda contro le ulcerazioni corrosive e contro quelle putrescenti, nei morsi dei Cani [rischio di rabbia! Rabbia malattia infettiva]. Ristagna le emorragie causate dagli interventi chirurgici che si fanno per togliere i calcoli dalla vescica [orinaria] , schizzandola subito, calda, nella ferita. Riduce il prolasso anale, quando il retto esce fuori. Se ne fanno clisteri nella diarrea/dissenteria, soprattutto quando la mucosa intestinale [del colon] è ulcerata, con ulcerazioni corrosive., ma occorre fare subito dopo un clistere di Latte. Gargarizzata, uccide le Sanguisughe che sono state inavvertitamente bevute e che si sono attaccate alla gola [un tempo era facile che le Sanguisughe colonizzassero cisterne e altre raccolte di acqua da bere], ripulisce dalla forfora e dalle ulcerazioni purulente della cute del cranio.-
Dioscoride non dà le dosi e le tecniche di preparazione; in pratica, comunque si tratta di una miscela di Sale ed Aceto o anche di Acqua di Mare, bollita con Aceto finchè la Salamoia diviene concentrata in modo da rendersi conservabile nel tempo.
Il Thimoxalme.
Anche questa è descritta di seguito all’ Oxalme, nel Cap. 17° ( vers. Mattioli) del V° Libro dell’opera citata:
– il Thimoxalme era in uso dagli antichi [antichi per Dioscoride! Figuriamoci per noi!], per darne a coloro che sono deboli di stomaco, tre o quattro bicchieri, annacquata con Acqua calda ed anche nei dolori articolari e nel meteorismo. Purga gli Umori densi e neri [quindi Flemma/Acqua unita a Malinconia/Bile nera/Terra perverse e concomitanti]. Si prepara in questo modo:
si prende un acetabolo (volume di circa 300 ml) di Timo triturato, altrettanto di Sale, poi di Ruta, di Menta Pulegio, di Polenta [polenta fatta con farina di Grano o di Farro] di ciascuno un pochetto [dice proprio così! Si fa ad occhio…] e si mette tutto insieme in un vaso e vi si versano sopra tre sestari di Acqua (circa 160 ml), tre ciati (circa 145 ml) di Aceto, e si copre il vaso con una tela e si pone [all’esterno] al cielo sereno.>>
Dioscoride non dice altro, e non si capisce se i liquidi messi sono caldi o se si fa cuocere o meno. Evidentemente era preparazione poco usata, anche ai suoi tempi…
L’ Aceto Scillino.
Descritto, sempre di seguito, Cap. 18° ( vers. Mattioli) del V° Libro, ancora nella “Materia Medica” di Dioscoride.
Dal Medioevo in poi, fu anche chiamato, fin quando fu preparato, quasi in tempi moderni, “Aceto Scillitico”.
Lo rammentiamo solamente, poiché la Scilla, anzi le Scille, contengono scillareni, sostanze di natura digitalica, quindi molto poco maneggevoli, per la mentalità anche medica e rigorosa, di oggi.
Certo la Scilla Rossa (Drimia o Urginea maritima, var. rubra), è praticamente solo tossica ed è stata usata come veleno per i Topi. Mentre la Bianca (Urginea maritima), è stata usata come cardiotonico fin quasi alla metà del XX° secolo.

Per Dioscoride agisce in molte affezioni anche diverse da quelle cardiache, come le mucosità tenaci (contiene infatti anche materie solforate analoghe a quelle del genere Allium – che non sono velenose! C’è l’Aglio, la Cipolla, il Porro, lo Scalogno), sulle malattie purulente, per i deboli di stomaco ed in particolare giova: – ai Melanconici, alle vertigini e per i mentecatti [nella traduzione del Mattioli], nei calcoli vescicali, nelle crisi isteriche, alla milza ingrossata [produttrice di cattiva Malinconia] e nella sciatica. Rafforza i deboli, dà energia ai corpi, dà buon colorito…….- ed infine dice che – fa bene ad ogni cosa – ! Però non va dato nel mal di testa e nelle affezioni dei nervi…
Si preparava solo con Scilla bianca, si faceva il bulbo a fettine, si faceva essiccare ed una volta essiccata, se ne prendeva una libbra (circa 330 gr) e si faceva macerare in dodici sestari (circa 6 litri e mezzo) di Aceto, (buono, dice Dioscoride, cioè ad elevato tenore di acido acetico), per sette giorni al Sole, in un recipiente ben chiuso. Poi si prendono i bulbi macerati e si spremono con le mani (meglio di no! Chi scrive, anni fa, affettò dei bulbi di Scilla ed ebbe una gravissima reazione di intolleranza; magari dopo essiccata e macerata in Aceto e poi con il Sole, perde buona parte di questa potenza irritante…); poi si riuniscono i liquidi e si filtrano bene. Dioscoride ci fa sapere anche che c’è chi la fa con solo cinque sestari (2,7 litri) di Aceto, quindi il prodotto viene più concentrato, altri la fanno con parti uguali in peso di bulbo di Scilla essiccato e Aceto e li fanno macerare sei mesi. Quest’ultimo preparato è quello più potente per fluidificare e alleggerire le mucosità Flemmatiche perverse. Ma, secondo noi, ancora meno maneggevole e molto pericoloso, ai tempi nostri!
Rimaniamo sempre affascinati dalla “verve” ancora brillantissima degli antichi Maestri.
Vogliamo continuare a provare a trasmettere ai Colleghi le nostre emozioni, mentre riscopriamo la loro ineguagliata sapienza e sottigliezza di pensiero.

TRATTO DALLA RIVISTA “FARMACIA NEWS”
ARGOMENTO: STORIA DELLA FARMACIA-SPEZIERIA

ALLE ORIGINI DELL’ ARTE FARMACEUTICA – TRASFORMAZIONE DI ALCUNE PIANTE PER ESSERE USATE COME FARMACI. – Prima Parte – del Dott. Luigi Giannelli

Ci piace rievocare l’ amato Maestro Dioscoride di Anazarba, medico militare nelle legioni comandate dal futuro Augusto Vespasiano, al tempo del Principato di Nerone (che, al di là dei suoi evidenti eccessi e perversità, fu amato dal popolo; e finchè rimase sotto la guida del suo Maestro Seneca, fu anche un buon Principe; poi Nerone lo fece ammazzare – cioè lo fece suicidare – diventò diverso, con tutte le conseguenze del caso…….).
Stavolta siamo stati colpiti da una droga particolare, usata nell’antichità sia come medicamento in sé, sia come “eccipiente attivo”, comune, facile da trovare, di facile gestione: l’ Aceto!
Naturalmente era usato comunemente come ingrediente alimentare, come oggi.
Oltre a Dioscoride consulteremo anche altri grandi Maestri, come Galeno.
Poi vedremo due o tre facili preparazioni (antiche!) a base di Aceto.
L’ACETO .
Ma vediamo cosa ci racconta il nostro medico legionario:
Pedanio/Pedacio Dioscoride di Anazarba, I° sec. d.C. (40 circa – 90 circa d.C.) – “Materia Medica” – Libro V° – Cap. 14° (vers. Mattioli).
– L’Aceto raffredda ed è astringente, giova allo stomaco, dà appetito, blocca le emorragie, in qualunque parte del corpo avvengano, sia bevuto sia sedendocisi dentro.
Cotto nei cibi, giova nella diarrea, e messo sulle ferite sanguinanti, ristagna il sanguinamento, applicato con Lana “succida” [“succida” significa “appena tosata” – “sub caedo” = dopo/sotto l’azione del taglio”, grezza, “sudicia”, non privata della lanolina, diremmo oggi. n.d.A.] oppure con una Spugna, sana le infiammazioni locali; fa rientrare l’intestino prolassato che è uscito dall’ano e del pari agisce sul prolasso dell’utero nelle donne. Blocca le emissioni purulente che escono dalle gengive ed anche le loro emorragie. Giova nelle ulcerazioni che distruggono i tessuti, nelle piaghe Herpetiche [“Fuoco Sacro”], nella scabbia, nell’impetigine (1), nelle unghie incarnite, nelle ulcere corrosive, al massimo grado se si mescola con medicamenti specifici per quel male.
Lavandocisi di continua sana le ulcerazioni che corrodono e serpeggiano sulla superficie del corpo.
Un pediluvio caldo, fatto con Aceto e Zolfo, giova nella gotta.
Fattone un empiastro con Miele e applicato, dissolve i lividi.
Si mette, mescolato con Olio Rosato (2), con la Lana “succida” o con Spugna, sulla testa, per il bruciore della testa stessa [si suppone una forma di dermatite; ma potrebbe essere anche il mal di testa!].
Il vapore dell’Aceto bollente giova agli idropici (3), alla sordità, ai sibili nelle orecchie; instillatovi dentro, uccide i vermi che vi si generano [si pensi: vermi nelle orecchie!].
Bagnandosi con Aceto tiepido, dissolve i “pani” (4); applicato con la Spugna, mitiga il prurito.
Scaldato e fattone un bagno [immaginiamo con Acqua!] giova nei morsi di quegli animali velenosi, che uccidono con la loro Freddezza; ma La Freddezza [l’Aceto è considerato Freddo dagli antichi], giova nello stesso modo anche nei morsi degli animali che producono un veleno Caldo.
Bevuto caldo e vomitato, giova contro tutti i veleni, al massimo grado contro l’Oppio (5), la Cicuta, il sangue coagulato nello stomaco, i Funghi velenosi, il Latte coagulato [il Latte un veleno!], l’Ixia (6), il Tasso (7), assunto con Sale.
Bevuto., fa uscire dalla gola le Sanguisughe che si fossero ingoiate; mitiga la tosse cronicizzata, ma irrita quella recente.
Si può bere utilmente caldo nelle crisi asmatiche; gargarizzato, giova nelle infiammazioni della gola; cura anche la “schiranzia” (8), ed al prolasso dell’ugola. Si tiene caldo in bocca per il mal di denti.>>.
Ma vogliamo completare la definizione della droga, che ci accorgiamo essere molto importante, nel mondo antico.
A questo punto non ci resta che far parlare anche il sommo dei Maestri di epoca romana-imperiale, Galeno, detto Claudio Galeno, vissuto nel II° sec. d.C.; fu medico e amico di Marco Aurelio e Lucio Vero, poi dovette occuparsi del figlio di Marco Aurelio, Commodo, e dopo la fine della dinastia degli Antonini – inaugurata da Adriano – anche di Settimio Severo. Visse a lungo, per l’epoca, superò sicuramente gli 80 anni, tra il 129 ed il 201 d.C. secondo alcuni autori, secondo altri visse fin oltre il 210 d.C.
L’ACETO SECONDO GALENO .
– da “Le Virtù dei semplici medicamenti” (semplici intesi come ingredienti singoli).
Dal I° Libro dell’opera:
– E’ composto di qualità contrarie, Calde cioè e Fredde, non è composto di parti simili, come il Latte [che infatti è composta dal Siero, definito come Caldo e dalla parte coagulabile, considerato Freddo e Flemmogeno/Acqua condensabile]>>.
Lo confermò anche nel VIII° libro dell’opera citata, così dicendo:
– Fu dimostrato nel I° Libro di questo commentario, che l’Aceto è composto di sostanza mista, una Calda ed una Fredda; ambedue però sottili e leggere; tuttavia la Fredda supera la Calda. Dissecca valorosamente, in modo che si considera tra quelle cose che sono Secche nel III° grado
[tra i più alti, al massimo si arriva al IV°!], intendo dire che è potentissimo per Disseccare.>>.
Quindi, dalla somma possiamo dire che l’Aceto è Freddo moderatamente, e Secco in grado elevato.
Da “La composizione dei medicamenti secondo i luoghi (= organi)”, Libro I°:
<< L’ Aceto, che si trova tra i medicamenti considerati incisivi/fluidificanti, oltre ad essere dissolvente, ha anche la specifica Virtù di ricacciare in dentro; come medicamento lo si usa più per la sua parte Fredda, che per quella Calda; quella Fredda è anche molto sottile e leggera -. Ancora dal IV° Libro del “Le Virtù dei semplici medicamenti”: - La sua Freddezza che nasce dall’Aceto, tanto è potente quanto è leggera e sottile. Ma vi si trova anche un certo Calore acre, che tuttavia non basta a superare la Freddezza, che nasce dalla sua Acidità, ma è bastante a renderla penetrante. Molto più facilmente penetra il Calore della Freddezza, per questo è più adatto ogni succo acre [acredine = affine alla piccantezza, all’ardore igneo] a penetrare per i meati che appaiono sui corpi, di quelli acidi [quindi Freddi e Secchi]. Il Calore, dunque, con l’acredine sua, precede [anche se di grado inferiore all’acidità], penetra, apre la strada; il Freddo dell’ acidità, gli viene dietro. Questi eventi dovrebbero far dubitare di poter dimostrare che l’Aceto sia del tutto Freddo, anche se la presenza della parte di acredine ardente, non dimostra che sia del tutto Caldo. Quindi: la Freddezza che viene a seguito del Calore, nasconde il Calore causato dal precedere dell’acredine, non solamente lo nasconde occupando l’area dove agisce il Calore, ma alla fine, del tutto lo spegne, di modo che il senso di Freddezza è molto maggiore di quello di Calore.>>.
Il commentatore/traduttore, Per Andrea Mattioli, medico del XVI° secolo che ci ha reso, oltre alle sue considerazioni anche i suoi punti di vista – comunque coerenti quelli antichi – la possibilità di conoscere l’antico sapere. In questo caso, conclude: << Da questo è chiaro che l’Aceto contiene in sé qualità diverse e contrarie; partecipa nondimeno molto più del Freddo che del Calore. A ciò ci aveva diligentemente avvertito Dioscoride, facendoci sapere che l’Aceto è Freddo, tenendo conto che la Freddezza è la sua qualità dominante. Bisogna tuttavia tenere conto che l’Aceto è tanto più Caldo, quanto più è vecchio e più mordente. Ne è testimone sempre Galeno nel suo “Le virtù dei semplici medicamenti”, Libro XI° e nel “La composizione dei medicamenti secondo i luoghi/organi”, Libro III°, che il Vino, l’Aceto, il Miele, l’Olio ed il Grasso [animale], tanto più sono Caldi, quanto più sono vecchi. Quindi si ritrova che l’Aceto molto invecchiato, è così fortemente acre, da divenire più Caldo che Freddo o perlomeno equilibrato tra le due qualità contrarie. -. Considerazioni odierne. Interessante la modifica nel tempo di alcune materie – considerate complesse, pur nella loro “singolarità” – nel corso del tempo; Mattioli parla di “invecchiamento”. L’Aceto invecchiando perde sicuramente l’acidità, visto che l’acido acetico è molto volatile, quindi anche ben chiuso, potrà perdere almeno in parte la Freddezza dovuta all’acidità stessa. Il Vino da invecchiare, ieri come oggi, deve essere di grado alcoolico elevato. I Vini a lunga conservazione, prodotti nell’antichità, avevano certamente una gradazione alcolica elevata (superiore ai 15-16 gradi alcolici e anche più, grazie all’attività di specie di Saccaromyces, capaci di sopravvivere e quindi fermentare, a gradi alcolici che possono arrivare fino a 18°! ), quindi in grado di mantenere una condizione ottimale per l’invecchiamento; ma comunque l’invecchiamento del Vino provoca in esso importanti modificazioni, grado alcolico a parte, nel colore, nella presenza di tannini, di zuccheri, di antocianosidi, ed altre sostanze. Certo, molti Vini rossi, nel lungo invecchiamento modificano o perdono il colore, cambiano il sapore, la digeribilità. La fermentazione malo-lattica trasforma l’acido malico, più aspro in acido lattico più dolce; i polifenoli polimerizzano, i tannini si legano agli antociani, e spesso precipitano, alcune sostanze, pur molto lentamente si ossidano, ecc. Il Vino diviene più corposo, l’aroma è meno acre e meno acido (anche se nei Vini di qualità questi gusti sono molto ridotti), il colore vira dal rosso quasi violaceo al rubino fino all’aranciato, ecc. Quindi, il Vino vecchio, per la mente antica, è ben più Caldo del Vino giovane. Il Miele nel tempo favorisce una parziale polimerizzazione degli zuccheri con formazione di polisaccaridi, il fruttosio dà luogo alla formazione di idrossimetilfurfurolo, sostanza che conferisce delle proprietà interessanti (anche se potenzialmente cancerogeno!), come quella di essere fluidificante del muco, ed altre azioni di degrado, come la perdita di enzimi e vitamine. Può aumentare l’aspetto acre del sapore, assumere un colore più scuro, il tutto dovuto alla progressiva ossidazione ed all’ aumento graduale dei derivati furanici (come il citato i.m.furfurolo, ma anche altri). Il Miele invecchiato assume un complesso di sapore e odore, che segnala un maggior grado di Calore, per la mentalità antica. Per finire, gli oli ed i grassi, in tempi e modi diversi, con il tempo subiscono i processi ossidativi, quindi di irrancidimento. Odore e sapore così modificati (per noi sgradevolmente), segnalano _ sempre per la mente antica – un considerevole aumento del Calore, ma anche della Secchezza. Quindi, Aceto a parte, Vino, Miele e Grasso, che freschi possono essere considerati tra il Calore Umido (Elemento Aria) ed il Calore Secco (Elemento Fuoco), da invecchiati sono molto più potentemente Caldi e Secchi (Fuoco). Certo è che gli oli e i grassi irranciditi non erano certo usati più nell’alimentazione, ma solo per uso esterno, poiché i derivati dell’ossidazione di oli e grassi hanno una discreta attività rubefacente. Anzi oli e grassi freschi sono Caldi e Umidi, quelli vecchi rancidi sono Caldi e Secchi, si passa dalla moderazione dell’Aria alla violenza del Fuoco! Prodotti complessi, derivati dall’ Aceto.

Decimo ragionamento “LE VIE REINTERATIVE ERBORISTICHE” seconda parte del Maestro Simone Iozzi

I PROCEDIMENTI DÌ BASE

IL DRENAGGIO
Rappresenta uno dei principali strumenti fisiologici atti alla detossicazione dell’organismo attraverso il coinvolgimento dei sistemi emuntori avverso la presenza di tossine organiche (endogene e/o esogene) presenti nei vari sostrati organici.

LA VIA CONNETIVALE
Il tessuto connettivo è uno dei quattro tessuti fondamentali dell’organismo, assieme a quello epiteliale, muscolare e nervoso, caratterizzato soprattutto dal fatto di essere costituito, oltre che da cellule, anche da sostanza intercellulare non vivente, che, come dice il nome, si trova tra le cellule separando le une dalle altre. Sostanza intercellulare costituita da una componente fibrosa distinguibile in fibre collagene, reticolari ed elastiche. Altra caratteristica del tessuto connettivo è di essere fornito di vasi e di nervi e di essere il vettore di essi agli altri tessuti poiché si trova in tutte le parti dell’organismo a costituirne l’impalcatura e il sostegno, ne forma lo strato sottostante a tutti gli epiteli di rivestimento (derma, cute, lamina propria delle mucose), avvolge gli organi, formando un involucro che li delimita dalle strutture vicine connettendole tra loro:
Penetra entro gli organi nella loro più intima compagine costituendone il così detto stroma non solo con il compito di sostenere le cellule parenchimali, cioè specifiche di ciascun organo, ma anche quello di recare ad esse i vasi ed i nervi; forma le fasce, le aponeurosi, i legamenti e i tendini, fa parte dell’imbottitura generale dell’organismo (tessuto sottocutaneo, grasso periviscerale, ecc); partecipando anche alla costituzione della parete degli organi cavi (vasi sanguigni, tubo intestinale, vie respiratorie, urinarie, ecc; infine va a formare strutture altamente specializzate come lo scheletro osseo, gli organi emopoietici, ecc.
Le funzioni del connettivo sono molteplici e non limitatamente a quella di “connettere” e sostenere le varie parti del corpo. Oltre ad una funzione meccanica svolta in varia natura da quasi tutte le varietà di connettivo, adempie un importante compito trofico, in quanto in esso decorrono i vasi sanguigni, si svolgono le reti capillari ed hanno inizio i vasi linfatici.
La sostanza fondamentale cui è composto; per le sue proprietà fisiochimiche, funziona da medium
tra gli scambi di sostanze nutritizie e di gas fra il sangue e le cellule, rappresentando
degli scambi delle sostanze nutritizie e dei gas tra il sangue e le cellule e rappresenta anche, per il suo alto potere di imbibizione, la grande riserva idrica dell’organismo giustificandone la definizione data dal Ruffini di tessuto trofoconnettivale.
Il tessuto connettivo inoltre ha una notevole importanza dal punto di vista protettivo, non solo perché avvolge e protegge i singoli organi, ma anche perché è in grado, in determinate circostanze, di costituire una barriera al progredire dei processi patologici, delimitandoli ed evidentemente incapsulandoli. Possiede quindi notevoli capacità rigenerative che li consentono di intervenire, in maniera preponderante anche nei processi riparativi e cicatriziali.
Fondamentale dunque è l’importanza del connettivo nei processi di difesa organica, sia in senso aspecifico che specifico poiché buona parte dei processi patologici, quelli di natura infiammatoria, si svolgono nel connettivo reagendo ad essi con le sue componenti cellulari di risposta attiva (fagocitosi e produzione di anticorpi specifici): quella della sostanza intercellulare (edema, aumentata permeabilità, iperemia arriva e passiva), dei vasi (edema, aumentata permeabilità, iperemia (attiva e passiva) e dei nervi (irritazione e dolore) che, nel loro insieme, rappresentano la risposta passiva.
Altra e non meno importante funzione del connettivo è quella di partecipare attivamente ai fenomeni metabolici, specie per ciò che riguarda l’immagazzinamento di sostanza nutritizie di riserva, come avviene nel caso delle cellule adipose.
Infine, tra le funzioni del tessuto connettivo può essere considerata anche quella emopoietica compartecipando alla produzione degli elementi figurati del sangue (nelle sue varietà mieloide e linfoide), identificandosi nela comune origine mesenchimale e il piano generale di organizzazione di tutti i connettivi.

Infatti tutte le varietà di tessuto connettivo hanno origine da un particolare tessuto embrionale, il mesenchima, derivato, a sua volta, in gran parte dal terzo foglietto germinativo, ossia dal mesoblasto. Anche l’endoblasto e l’ectoblasto partecipano tuttavia, seppure in modesta misura, alla formazione del mesenchima.

LA DEFLOGiSTICA
Rappresenta uno dei fondamentali atti difensivi definibili come la naturale risposta di un organismo vivente ad agenti o situazioni che provocano un danno in una sua qualsiasi sede.
L’infiammazione consiste in una serie di eventi biochimici e morfologici che coinvolgono attivamente i sistemi polimolecolari del plasma e dell’interstizio (sistemi di complemento, della coagulazione, delle kinine, della plasmina), elementi cellulari del sangue (globuli bianchi, piastrine), cellule di origine mesenchimale libere nei tessuti (mastociti, macrofagi, fibroblasti), e cellule organizzate in strutture (endotelio dei vasi sanguigni e linfatici, cellule muscolari lisce, cellule del reticolo e dei seni degli organi linfatici.
Senza entrare nel merito dei meccanismi di risposta infiammatoria (modificazioni vascolari, essudato, migrazione dei leucociti), questa rappresenta un fenomeno essenzialmente difensivo la cui finalità viene realizzata con meccanismi diretti quali la fagocitosi e pinocitosi e nella secrezione da parte dei granulociti, monoliti e macrofagi, e indiretti più complessi, possiamo dire come a lungo termine la flogosi provoca spesso fenomeni degenerativi e necrotici del tessuto comportando alterazioni funzionali di organi con complicazioni cliniche anche gravi.
Oltre a queste provoca anche conseguenze di ordine generale consistenti in alterazioni della crasi ematica, febbre, modificazioni cardiovascolari e metaboliche sistemiche a livello del plasma circolante, di immissione in circolo di mediatori, ecc. Eventi indotti e regolati da una serie di modificazioni biochimiche che coinvolgono il plasma, il connettivo interstiziale, le cellule del sangue e dei vasi, mediante la formazione di composti quali responsabili di modificazioni vascolari, dell’aumento della permeabilità, della chemiotassi, delle trasformazioni cellulari della fase istogena, della proliferazione di fibroblasti e vasi.
Sequenza molto complessa il cui meccanismo di scatenamento iniziale rimane uno dei grandi problemi ancora irrisolti. Esso viene definito in termini generici come danno al tessuto e segna l’inizio di una serie di modificazioni biochimiche a cascata in una rete di interreazioni che si regolano e s influenzano reciprocamente.
L’infiammazione consiste in una serie di eventi biochimici e morfologici che coinvolgono attivamente i sistemi polimolecolari del plasma e dell’interstizio (sistemi di complemento, della coagulazione, delle kinine, della plasmina), elementi cellulari del sangue (globuli bianchi, piastrine), cellule di origine mesenchimale libere nei tessuti (mastociti, macrofagi, fibroblasti), e cellule organizzate in strutture (endotelio dei vasi sanguigni e linfatici, cellule muscolari lisce, cellule del reticolo e dei seni degli organi linfatici.

LA DETOSSICANTE
Con in termine di detossicazione, nel suo significato più ampio, indica l’insieme delle operazioni di sistemi escretori atti ad allontanare le sostanze derivate dal ricambio organico, come scorie endogene, o esogene, introdotte occasionalmente con gli alimenti, farmaci o derivati batterici, e come questi si trovino a diverso livello è ormai dimostrato. Infatti, restando l’urina il più importante veicolo di escrezione per certi composti, altri possono essere eliminati con le feci, mentre per molti altri l’escrezione urinaria e fecale può essere preceduta da quella biliare e in certi casi, possono avere notevole importanza, quella polmonare. Non è da escludere infine l’eliminazione di alcune sostanze e loro scarti metabolici può avvenire tramite il sudore, i capelli e le unghie, come è anche nota l’escrezione attraverso la saliva e il latte. In ultimo c’è da aggiungere come alcune sostanze vengano poi escrete direttamente senza alcuna trasformazione, altre ancora la trasformazione da parte dell’organismo non richiede alcun intervento enzimatico, altre ancora lo sono ad opera della flora intestinale.
Oltre alla possibilità di ricorrere ai sistemi escretori in modo di influenzare le vie e i modi di eliminazione delle sostanze inquinanti, vanno tenuti in considerazione anche altri fattori quali età e il sesso come anche una certa importanza è da attribuirsi ai fattori ambientali, agli stati di stress,ai ritmi circadiani, ecc.

LA FEBBRILE
Nell’uomo il controllo della temperatura corporea non è che uno dei tanti atteggiamenti fisiologici atti a consentire il regolare svolgersi delle funzioni corporee in condizioni ambientali interne diverse, non solo riferito a quello delle parti periferiche dell’organismo ma a quella presente in profondità, ossia della testa e del tronco. Pertanto il controllo della temperatura corporea dipende da due modalità principali: a) dal calore prodotto dal metabolismo dei vari organi e tessuti, b) il calore disperso dalla maggior parte dalla superficie corporea.
Per questo lo stato febbrile, salvo eccezioni, deve essere considerato lo sforzo più franco di cui è capace l’organismo per eliminarne le cause tramite un’azione detossicante, tonificante e temperante di tutto il suo sistema adattivo di cui la febbre né rappresenta lo sforzo corporeo più franco.
“Per la cronaca, Sydenhan e Boerhave espressero, tempo addietro, il carattere depurativo della febbre come instrumentum naturae qui pertes a puris sacernat per il primo; effecti virae conatis avertere morter per il secondo. Latemendi insiste invece nella sua tendenza conservatrice del danno casuale, tuttavia non è il danno in sé, bensì la difesa avverso di esso: in linea di principio va rispettata e può rappresentare il barometro che annuncia la tempesta (però questa non si scongiura rompendo il barometro). Infine Ippocrate stesso giudicava più facile trattare qualunque patologia che non la cronica febbre”.
Con questo ultimo ragionamento termina la parte propedeutica, cioè l’acquisizione di una certa “forma mentis” per svolgere coerentemente (a mio personale giudizio) la nobile Arte dei semplici come sintesi di una più vasta esposizione. Comunque spero sia sufficientemente esaustiva
Ringraziandovi per l’attenzione. Simone Iozzi
PS. Per quanto riguarda la parte propriamente erboristica, quella applicativa, sto ancora lavorandoci sopra (cosa non facile). Comunque sempre a diposizione per eventuali ragguagli

Nono ragionamento ” Lo stato morboso ” seconda parte, Maestro Simone Iozzi

LA PREDISPONENTE MORBOSA.

L’idea di una predisponente riguardo ogni stato morboso è databile intorno all’epoca della Scuola Ippocratica perfezionata poi, nel corso dei secoli, da molteplici Scuole di pensiero medico, fino a darle una collocazione idonea a definirne i sui contorni patognomici di fondo Ossia fu riconosciuto che ogni stato morboso nasca da un susseguirsi di input stressogeni a fronte della vis medicatrix naturae.
Interpretazione che ha dato luogo oggi a diverse opinioni che optano per stati morbosi consequenziali casualità remote, ovvero da input aspecifici; viceversa imputabili a casualità prossime.
Ciò ha dato adito al tormentato quesito pilatiano su tutta una serie opinioni, spesso in contraddizione tra loro, sull’importanza o no, in ambedue situazioni, di una predisponente a priori spesso è latenti e asintomatici, oppure palese tramite manifestazioni come malesseri indefinibili, debolezza, apatia, senso di stanchezza, ecc, cui può seguire la reazione infiammatoria, la febbre, la sudorazione, le scariche diarroiche, ecc, anticamera spesso di una lunga ed estremamente complicata serie di fenomeni identificabili poi in una patologia vera e propria..

I TRATTI DELLA PREDISPONENTE MORBOSA

Esaminati tramite una interpretazione basata su aspetti oggettivi e soggettivi circa il rapporto tra esteriorità somatiche e predisponente morbosa ricorrendo ai dati forniti nel capitolo sul sostrato di fondo individuale tenendo di conto l’homo sapiens vive in grazia di una norma omeostatica da cui derivano due precetti fondamentali indissolubilmente legati all’oggettività dello stato morboso cui dipende la soggettività di risposta adattiva avverso il processo morboso

Oggettività dello stato morboso:

– l’ereditarietà: quale concomitante situazione che ha o che potrebbe incidere sull’insorgere e sul decorso della stato morboso;

– l’eucrasia: intesa come componente umorale interna;

– la diatesi: come predisposizione verso determinati stati morbosi.

Si parla di diatesi reumatica, allergica, ecc;

– i segni analogici: la coerenza tra abito costituzionale è stato morboso;

– i segni non analogici: la non coerenza tra abito costituzionale e stato morboso;

La soggettività del processo morboso

– il carattere: se occasionale o accidentale, se stazionario o permanente;

– gli aggravanti: rappresentati dal cattivo rapporto con i fattori ambientali esterni;

– gli emuntori di base: quali la defecazione l’escrezione urinaria, la tegumentale e polmonare.

Nono ragionamento ” Lo stato morboso ” prima parte, Maestro Simone Iozzi

NONO RAGIONAMENTO

LO STATO MORBOSO
SECONDO
LA FITOTERAPIA TRADIZIONALE ERBORISTICA

CONSIDERAZIONI E DIVAGAZIONI PRELIMINARI

Sulle generali possiamo parlare di due stati certi riguardo al senso della vita e di morte nel quale lo stato morboso non vi rientra poiché esso continuamente muta ed evolve, quindi passibile di risoluzione, di cronicizzazione e può condurre allo stato certo che è la morte. Può condurre alla morte ma non è la morte, perciò non considerabile come vita né tanto meno come morte, ma come fatto accidentale che sta alla vita, come la vita non sta alla morte ma ad un complesso di funzioni biologiche che resistono alla morte.
Dunque la vita in sé e di per sé è una condizione singolare e caratteristica rappresentata e sostenuta da un insieme di processi biologici che le consentono di alimentarsi, crescere, automantenersi e di riprodursi. Affinché questi processi abbiano possibilità di procedere secondo occorrenza, devono avvenire all’interno di determinate costanti fisiologiche, onde resistere alla morte. In pratica si ammette che la morte si ha quando queste vengono meno fino alla loro cessazione dell’organismo; in particolare le tre grandi funzioni quali la cerebrale, la cardiocircolatoria e la respiratoria. Mai drasticamente (salvo nell’infarto e altre condizioni traumatiche), ma gradatamente venendo sostituite da altri fenomeni quali i precadaverici. Le condizioni di vita sono dunque indissolubilmente legate all’incessante sforzo da parte dell’organismo di resistere alle forze che tendono ad annullarne il naturale scorrimento.
Quand’è dunque che inizia questo andare incontro alla morte? come e evolve e come si conclude? E’ difficile dare una risposta esaustiva al quesito al di fuori del significato di normalità per anatomi sistemi ma come accidentalità che non rientra nella normalità (dal latino norma che nella sua eccezione significa regola o legge)

LO STATO MORBOSO
La condizione ottimale di vita di ogni essere vivente è riconosciuta nella sua capacità di conservare la propria salute: ossia di garantire il pieno benessere psicofisico.
Per salute si intende quindi qualcosa che va ben oltre il concetto di assenza di sintomi, ma definibile come sviluppo armonico della personalità del singolo individuo nei confronti delle processualità biologiche.
Tuttavia, se tale definizione generale può apparire accettabile, poco ci dice su di un piano delle processualità biologiche, per cui è opportuno precisarne i contenuti..
Tutto ha inizio nel definire la natura umana quale sistema vivente che si compie all’interno di particolari strutture, le cellule, a mezzo di appositi componenti separate tra loro da membrane semipermeabili, dove ogni componente è correlato ad un numero imprecisato di altri componenti in costante e reciproco rapporto subordinato da numerose variabili quali quelle che possono verificarsi in seno agli scambi con il mezzo ambiente interno (vedi stato eucrasico), da cui traggono materia ed energia.
Come è ben noto, tutti i fenomeni biologici che caratterizzano la sostanza vivente sono soggetti a condizioni di variabilità processuali che di volta in volta si conformano alle necessità dell’organismo, per cui appare evidente che la processualità di ogni variabile non può identificarsi con valori statisticamente stabiliti per ogni singola categoria di cellule, la cui critica può essere rappresentata dal fatto di riconoscere per normale solo ciò che rientra nei limiti prestabiliti, pecca (a mio personale giudizio), di artificiosità..
La capacità di modulare le proprie variabilità processuali a fronte di esigenze diverse, costituisce l’adattamento (vedi apposito capitolo)), tanto da rappresentare uno dei fondamentali requisiti che permette alla sostanza vivente di mantenere stazionari (non fissi) determinati valori omeostatici nonostante l’incidenza di fattori etiopatologici che ne potrebbero perturbare l’ordinato svolgersi. Stazionarietà modulante le cui possibilità non sono illimitate; oltre certi limiti l’organismo non può aumentare tale peculiarità che tende a mantenersi all’interno di minima , media e massima performance che oscilla incessantemente intorno a valori di soglia biologicamente stabiliti oltre i quali (secondo l’erboristica), la maggior parte degli stati morbosi nascenti trarrebbero la loro origine. Ipotesi che propende sull’esistenza di momenti sfasamento funzionale elementare a priori dei servomeccanismi biologici (anche se la definizione di elementari è ben lontana dall’essere semplice).

In tempi non recenti le varie patologie di cui soffre l’homo sapiens sono state considerate accidentali, ritenendo implicita la presenza di una contrapposizione tra salute e malattia, poiché risulta che un individuo perfettamente sano è un caso limite mai raggiunto. Ogni organismo è sempre, in qualche misura, ammalato, e ciò che è chiamiamo salute in realtà è una definizione che viene applicata tutte le volte che le incidenze patognomiche, di norma non superano qualitativamente e quantitativamente certi valori limite ontologicamente fissati.

Quindi, in linea di principio, possiamo presumere che ogni interpretazione, sui fatti sopra descritti, se guidata dalle sole alterazioni per anatomie indagati, rischia di non cogliere una incrinatura nella stazionarietà dei valori omeostatici su cui poggia la salute dell’organismo.
Sulla base di queste supposizioni è possibile accettare il concetto di movente patognomico a priori, ovvero sostenere l’idea che possa avere origine da una sfasamento primario a carico di un valore omeostatico interno, ideale o desiderato, potrebbe costituire il motivo di fondo di una fisiopatologia a posteriori.
L’assenza della percezione dei sintomi è una condizione permanente oppure transitoria? Ammettere la possibilità di uno stato morboso nascente i cui momenti etiologici possono essere non percepibili in termini sintomatici, permette teorizzare stati morbosi a carico di determinati sostrati organici. riconducibili ad una etiologia a priori imputabile ad oscillazioni del sistemi omeostatico generale: quindi asintomatica. Ed è proprio dei sistemi assoggettati ai sistemi omeostatici offrire la possibilità di aversi eventi definibili come stati morbosi silenti, penso non si tratti di una vischiosità concettuale, di lana caprina.

Sulla scorta di quanto fin qui descritto ogni nascente stato morboso, in generale, costituisce fenomeno limitato nel tempo che tende ad essere riassorbito spontaneamente, ma può anche evolvere fino a costituire patologie più o meno complesse con tutto il corollario che le contraddistingue. Corollario che ha una propria storia naturale chiamata decorso che può assumere caratteri diversi nel quale è possibile distinguere, una fase etiologica di incubazione, una fase iniziale silente, una fase successiva sintomatica cronica o reversibile
Nello specifico ogni stato morboso passa da livelli inferiori di organizzazione asintomatica a quello superiore sintomatico per cui si hanno, nel vivente, consequenzialità di iter a cascata a tutti i livelli di organizzazione biologica; dalla più elementare alla più complessa.

Simone Iozzi

Impressioni del 3° Congresso Di Erboristi Mediterranei …. da Alessandro Pagnoni

Cari Erboristi Mediterranei,
Avrei voluto scrivere un resoconto più asettico e meno sentimentalmente patecipato, riguardo al congresso di Erboristi Mediterranei che si è tenuto a Zafferana Etnea (CT) il 25 ed il 26 marzo 2017 e che mi vedeva tra i partecipanti, ma un resoconto asettico non avrebbe reso l’idea del clima di festa e di passione per la tradizione di utilizzo delle piante officinali che si è respirato in questi due giorni.

Quindi sebbene il parterre di relatori fosse composto nomi storici dell’Erboristeria Italiana: quali Simone Iozzi, Luigi Giannelli, Carlo Montinaro, Marco Sarandrea, Giuseppe Ferraro, Carmela Patania, Bartolomeo Antonio Scalzi e Carmelo D’Amore vorrei prima di tutto soffermarmi sull’atmosfera di amicizia, stima e passione che regnava tra i partecipanti e tra i partecipanti ed i relatori, amicizia che si è ritrovata a tavola, nei brindisi, nei capannelli spontanei che, durante le pause, si formavano parlando di ogni cosa, di metodi come di piante, così come, con estrema leggerezza, di metodiche analitiche.

Se ci fossero parole per descrivere la signorilità del Maestro Simone Iozzi, il garbo e l’infinita disponibilità di Marco Sarandrea, la passione e la chiarezza espositiva del dott. Luigi Giannelli e l’amore per il proprio lavoro dimostrato dalla valentissima collega Carmela Patania probabilmente le userei ma queste parole o non esistono, oppure il sottoscritto è scrittore troppo modesto per trovarle.

Torniamo più seri e cominciamo a descrivere le relazioni partendo da quella del dott. Ferraro che, alla presenza di circa una trentina di erboristi ha spiegato le relazioni tra piante officinali, uomo e cosmo secondo le teorie antroposofiche elaborate, oltre un secolo fa da Rudolf Steiner.

Successivamente è stata la volta del dott. Carlo Montinaro, pediatra, Presidente della Scuola Medica Salernitana che ha spiegato alla platea presente il Circa Istans erbario presente nella biblioteca afferente a questa scuola dopodiché ha rapito la platea con un esposizione storica relativa agli 11 secoli di storia della Scuola Medica Salernitana.

Il Maestro Simone Iozzi ha chiuso i lavori del sabato educendo la platea sul ruolo della fitoterapia tradizionale erboristica, che, stando alla sua relazione porrebbe linguisticamente al riparo da ogni abuso professionale da parte degli erboristi. Le prerogative di un buon erborista tradizionale starebbero secondo il pensiero del relatore in tre diverse essenzialità: l’essenzialità delle painte intese come tagli tisana e preparazioni tradizionali, l’essenzialità del corpo umano che va conosciuto a menadito in ogni sua funzione fisiologica ed infine l’essenzialità della creazione della salute attraverso le erbe.
La fondamentale differenza, infatti l’erborista moderno e l’erborista tradizionale sta nella considerazione del principio attivo: se in fitoterapia clinica esso è fondamentale, in fitoterapia tradizionale il principio attivo è del tutto ininfluente poiché il fitocomplesso ha la parte preponderante.

La domenica mattina è stata la volta di Luigi Giannelli che ha letteralmente rapito la platea parlando delle piante della madre terra secondo la Medicina Tradizionale Mediterranea ed insegnando a noi tutti l’utilizzo corretto di queste piante.

Dopo il dott. Giannelli è stato il turno di Marco Sarandrea che dapprima ha parlato di Erboristeria monastica con la descrizione accurata della regola di Benedetto da Norcia, soprattutto riguardante la coltivazione dell’orto dei semplici. Quindi egli, presentatosi con una borsa di piante raccolte quella mattina stessa nei dintorni dell’albergo che ci ospitava, ci ha descritto l’utilizzo di ciascuna di esse soffermandosi, in particolar modo sulle piante dimenticate dall’erborista moderno, piante che appartengono alla nostra tradizione e che dobbiamo salvaguardare ad ogni costo.

La dott.ssa Carmela Patania ci ha proposto una interessantissima riflessione sul ruolo del seme sia nella parte botanica, sia in quella alimentare concludendo la sua relazione con la spiegazione di una tisana a base di quattro semi di apiacee utile nei casi di digestione lenta.

Dopo la nostra vicepresidente è stato il turno, assai gradito, di un collega dalla cui chiarezza espositiva anche i migliori relatori al mondo dovrebbero imparare, Bartolomeo Antonio Scalzi che con la sua relazione su “La vita segreta delle piante” ha dato alla platea prova dell’amore che ogni erborista dovrebbe avere, per la botanica. La relazione non ha posto la botanica come una materia sistematica e nemmeno ha fatto vedere le piante da un punto di vista evolutivo diretto come si è soliti leggere nei manuali di botanica, bensì la relazione si è interrogata sul significato della parola evoluzione.
Il Maestro Simone Iozzi ha chiuso, infine i lavori parlando e spiegando il suo erbario e i modi di utilizzo di ogni singola pianta.

Concludendo questo resoconto il sottoscritto si è reso conto una volta in più, mi si perdoni il gioco di parole, di praticare un mestiere antico e bellissimo che tuttavia dà risposte ad interrogativi estremamente moderni.

Grazie
Alessandro Pagnoni

Secondo ragionamento riguardo la presenza di uno stato protoplasmatico a cura del Maestro Simone Iozzi.

In uno stato colloidale poli disperso, quale quello che costituisce la componente del protoplasma, si ritrovano sali inorganici, amminoacidi, zuccheri semplici o complessi, piccole molecole, ecc; sostanze fisicamente disciolte nella fase acquosa e quindi determinanti la condizione fisica della sostanza vivente. Inoltre, essendo altamente liofili, hanno forte tendenza ad associarsi alle molecole di acqua della fase disperdente mediante legami di idrogeno e forze di Van der Waals (solvatazione). Fenomeno di notevole importanza in quanto garantisce la stabilità del sistema colloidale protoplasmatico permettendoli una trasformazione reversibile dallo stato di sol a quello di gel.

Il passaggio da una condizione fisica all’altra non avviene casualmente, ma è legato a precise situazioni chimiche, fisiche e metaboliche; dove particolare importanza hanno la temperatura, la pressione, l’osmolarità, il pH, la concentrazione degli elettroliti, il livello energetico del sistema e, in ultima analisi, il grado di attività della cellula.
I colloidi, strutturati in catene proteiche, hanno la possibilità di organizzarsi in un fine reticolo tridimensionale abbinandosi nei punti di incrocio con legami più o meno stabili a formare molecole, alle quali sono ancorate sostanze di natura diversa (enzimi, cofattori, lipidi, metaboliti, ecc.): organizzazione principalmente legata ai processi del metabolismo cellulare, ma che in determinate circostanze possono esercitare sensibili influenze sulla stessa organizzazione reticolare dei colloidi protoplasmatici.

Alla luce delle moderne conoscenze, l’ipotesi che un reticolo macromolecolare possa reversibilmente trasformarsi in un sistema di particelle indipendenti si concilia poco con alcuni aspetti essenziali della fisiologia cellulare, come la regolarità di svolgimento dei processi metabolici e la distribuzione compartimentale del lavoro nelle cellule.

D’altra parte la materia vivente non può essere configurata come uno specifico sistema fisico ma piuttosto come un’organizzazione complessa di cui lo stato colloidale di alcuni componenti rappresenta soltanto un aspetto particolare.

“Primo ragionamento sul sostrato corporeo e la sua normalizzazione funzionale” del Maestro Simone Iozzi

La materia vivente ci si presenta con una enorme varietà di forme e di funzioni indissolubilmente legate. Circa un milione di specie animali e 280000 circa di piante sono attualmente conosciute, e per nessun gruppo l’attuale sistematica è ben lontana dalla completezza.

Ma, pur con questa molteplice diversità, gli organismi viventi posseggono comuni attributi che li riuniscono tra loro, separandoli dal mondo inorganico e, per quanto diversi tra di loro, si distinguono da una pietra o da un campione di specie chimica, quindi tra loro si assomigliano.
Però, anche se immediata l’intuizione di ciò che è vivo, non è facile dare una breve definizione degli attributi biologici comuni all’intero mondo dei viventi poiché, in genere, presentano una conformazione estremamente complessa fin in ogni individuo e nei vari momenti di vita di ogni individuo: e la loro organizzazione deve pur avere una matrice comune, e questa è da ricercarsi nelle caratteristiche morfo funzionali identificabili nella cellula eucariota che presenta una morfologia più o meno ben definita nelle loro diverse forme e una base comune che si ritrova nella cellula. Possiamo dire perciò, che tutti i sostrati organici di fondo sono costituiti da una o più unità cellulari composte ognuna essenzialmente da una massa protoplasmatica contenente il citoplasma e il nucleoplasma. E’ nel citoplasma si compiono incessantemente due ordini di fenomeni opposti, disintegrativi, con liberazione di energia (fenomeni catabolici), o costruttivi o reintegrativi (fenomeni anabolici) con immagazzinamento di energia. La sostanza vivente presenta perciò un continuo ricambio ana – e catabolico: insieme rappresentano il “metabolismo cellulare”.
Inoltre la sostanza vivente, a fronte di input stressogeni, reagisce in determinate maniere, e se lo stimolo non è troppo forte, alla sua cessazione il protoplasma rientra nella condizioni quo ante .

L’irritabilità è una proprietà veramente generale della sostanza vivente? E difficile dirlo, perche è difficile definire il fenomeno. Certamente la risposta è affermativa, se intendiamo interpretare ll fenomeno in senso “dinamico”, anche se risulta oltremodo complicato all’interno di un habitat umorale (ialoplasma o citosol) adeguato specificamente conosciuto come gradiente biochimico o umorale quale quello che l’evoluzione naturale ha prestabilito filologicamente e ontologicamente fin dai primi nucleotidi apparsi sulla Terra.

TRA SALUTE E MALATTIA del Maestro Simone Iozzi

Tutti siamo a conoscenza dei quadri perniciosi classificati dalla patologia la cui distinzione morbosa si fonda, in particolare, sulla presenza di alterazioni funzionali di vario tipo quali quelli che riscontriamo nei differenziati sostrati organici offrendo indicazioni atte riconoscere e classificare le varie malattie abbinabili ad una patogenesi per la quale esse si producono ed evolvono.

Senza entrare in eccessivi particolari di come si giustificano parleremo qui (in fitoterapia Tradizionale Erbosistica) di un loro significato più ampio, ovvero di stato al suo interno riferito al nozione di malattia. Sulle generali possiamo dire che abbiamo due stati certi riguardo al concetto di vita e del suo contrapposto che è la morte. In quest’ordine lo stato di malattia non vi rientra poi che essa continuamente muta ed evolve, quindi è passibile di risoluzione, di cronicizzazione e può condurre allo stato certo che è la morte. Può condurre alla morte ma non è la morte, perciò non considerabile come vita né tanto meno come morte, ma un fatto certo che sta alla vita e può concludersi con la morte.

Per definizione la vita, come stato certo, possiamo ricercarla all’interno di condizioni biologiche possibili e accertabili riassumibili come rappresentazione di un complesso di funzioni organiche che resistono alla morte. Ma specifichiamo meglio questa rappresentazione.

La vita in sé e di per sé è dunque una condizione singolare e caratteristica rappresentata e sostenuta da un insieme di condizioni biologiche che consentono alla materia vivente di alimentarsi, di crescere e di riprodursi. Affinché tali processi (funzioni organiche), abbiano la possibilità di svolgersi adeguatamente occorre la presenza al suo interno di costanti (ovvero di un equilibrato stato umorale come gradiente biochimico e di costanti fisiologiche quali l’osmosi, il pH, l’elettrolitiche): questo per la semplice ragione di garantire il proprio fisiologico procedere onde resistere alla morte che è la cessazione di ogni fenomeno vitale.

In pratica si ammette che la morte si ha quando cessano le funzioni vitali ed in particolare le tre grandi funzioni quali la funzione nervosa, la cardiocircolatoria e la respiratoria. Esse non cessano mai drasticamente (salvo certe condizioni traumatiche), ma gradatamente venendo sostituite da altri fenomeni quali i precadaverici.

La condizione della vita è dunque indissolubilmente legata all’incessante sforzo da parte dell’organismo di resistere alle influenze perniciose di origine endogena o esogena che tendono ad annullarne il fisiologico scorrimento.

Quand’è dunque che inizia la malattia, come essa evolve e come si conclude? E’ difficile dare una risposta esaustiva al quesito al di fuori di una contesto anatomo – patologico certo, come pure è difficile dare una risposta esaustiva al concetto di normalità fisiologica e al suo contrario di anormalità fisiologica. (Normalità, dal latino norma, nella sua comune eccezione significa regola o legge: la malattia, per il suo carattere di anormalità, è una eccezione ed esiste perché vi è la norma)

simone iozzi

PROPREDEUTICA ASPETTI RAGIONATI SULLLA PHYISIS UMANA 1/2 – del Maestro Simone Iozzi

  • Concretizzare l’uomo come microcosmo che racchiude in sé il macrocosmo.
  •  Come fenomeno vivente – forma – corpo – e nuomeno; essenza e psiche.
  • Aspetti interdipendenti che agiscono uno sull’altro.
  • Aspetti di una unità qual è l’individuo umano.
  • Ma è anche figlio della terra madre/matrice di vita.
  • Chi la conosce veramente? giacché in essa agiscono atti conosciuti
  • atti  imponderabili non ancora sufficientemente noti

DIVAGAZIONI E CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Ogni volta quando osserviamo un organismo vivente, pluricellulare, non finiamo mai di stupirci di quanto

siano ben organizzati tutti i miliardi di cellule che lo compongono e come queste contravvengano al

disordine cui la vita non può sfuggire dalla sua immanenza: come la sua continuità sia strettamente legata

alla capacità di utilizzare materia ed energia che attinge dall’ambiente a suo esterno restituendoli poi sotto

forma di scorie e di calore.

Sappiamo come l’organismo umano viva grazie alle sue cellule, e come queste operano in un incessante

rimaneggiamento dei metaboliti presenti nel loro citoplasma formato da un delicato film liquido

contenente sostanze che conducono alla formazione di altre sostanze e così di seguito fino al prodotto

finale e, nel contempo, di eliminare biossido di carbonio e tutti i prodotti di scarto del proprio metabolismo.

Sappiamo anche che partendo da corpi chimici relativamente semplici la cellula sia in grado di costruire

composti altamente complessi tramite continui rimaneggiamenti sequenziali di scissioni e nuove risintesi

fino al prodotto finale: ovvero a molecole organiche i cui diversi destini biologici sono attribuite le

particolarità di ogni “via metabolica” atte a costituire una estesa rete di canalizzazioni il cui significato

risulta fondamentale per l’esplicazione di vita organica. Inoltre hanno necessità di un quid umorale interno

(citato dal Cannon come milieu interne), caratterizzato dalla presenza acqua, oligoelementi, vitamine, ecc,

la cui omogeneità va soggetta ad un incessante rimaneggiamento in termini di equilibrio dinamico secondo

un copione ontologicamente preordinato.

Sappiamo anche come la sostanza vivente abbia in comune tutta una serie di caratteristiche che

permettono di distinguerla dalla non viva: che possiede una propria individualità, una propria

organizzazione, una propria diversità, tutto intimamente connesso, interconnesso e mediamente

interdipendente tramite una complessa rete di relazioni nella quale tutti gli attributi biologici necessari

alla vita vi sono esplicati e regolati

Una sostanza vivente assoggettata a processi di autocontrollo su avvicendamenti che producono o

riproducono continuamente se stessi nei propri modelli di organizzazione molecolare, in subordine alla

preservazione di reciproche interconnessioni tra i vari cicli metabolici a patto pero che conservino la loro

individualità processuale.

Potremmo chiederci infine se sia opportuna un riflessione sulla individualità processuale dei cicli

metabolici. La risposta è affermativa poiché nei sistemi organici si esplicano in termini di coerenza tra

scissione e risintesi svincolati da una linearità di causa – effetto.

Viene allora spontaneo chiedersi come sia possibile tutto ciò, e il fatto stesso che ci poniamo questa

domanda significa che non diamo ancora una risposta esaustiva, poiché ciò che sottende ai processi vitali

appartiene a cose che non possiamo oggi completamente dimostrare con le nostre attuali conoscenze

In Erboristica è dunque fondamentale l’importanza data al continuo rimaneggiamento della

intercambiabile reciprocità tra le connessioni raffiguranti un sistema di canalizzazione di estese vie

metaboliche tanto da rappresentare, nel loro insieme, un supersistema a circuiti multipli in subordinate al

concetto che tutto agisce su tutto e tutto coordina tutto subordinatamente alla condizione individuale del

momento in atto connessa e necessitata di “sistema finalisticamente organizzato”, legittimandolo (citando

Lamarck) “in forza di una necessità interiore degli organismi viventi secondo i propri bisogni di

appressamento filogenetico ontologicamente definibile come vincolo di sopravvivenza”, trova sostegno

principalmente nella solidale inclinazione a riunire in un comune denominatore recepibile come “sistema

aperto, cellulare, delimitato da un confine selettivo qual è la pelle percorso da flussi” prospettato da Pietro

Omodeo, “nella misura in cui abbraccia incondizionatamente il paradigma riguardo l’ottimizzazione di

“ambienti mutevoli” all’interno della compagine umana concepita come solidale compagine di strutture

caratterizzare da corpi chimici che entrano a farne parte, poiché niente fa parte del nostro organismo che

non dipenda da un incontro tra corpi chimici aggregati tra loro; ed è naturale che sia così perché noi siamo

“relazione tra sostanze diverse”, dove la nostra stessa esistenza è un concerto di “incontri” tra corpi

chimici i quali, aggregandosi dentro di noi, formano e mantengono momento dopo momento il nostro

organismo in un comune accordo convergente verso un unico scopo..Dove i corpi chimici che ne fanno

parte, se studiati separatamente, non hanno in sé l’idea della vita se non quando, aggregandosi all’interno

della cellula, vanno a formare lo stato di fondo dei vari sostrati organici

La sostanza vivente ci si presenta dunque con un ordine, con una forma, o meglio con disegni più o meno

complessi di forme ben definite, sulle quali si impiantano le funzioni: Dobbiamo subito sgombrare il campo

dall’ozioso dilemma, se sia la funzione a creare la struttura, o se preesista un sostrato morfologico su cui si

impiantano poi le funzioni. Forma e funzione son inscindibili, sono i due aspetti cui si presenta un’unica

realtà con facoltà indissolubilmente legate e interdipendenti, che non sono mai caotiche quando le

osserviamo a determinati livelli ai quale corrispondono determinate proprietà chimico – fisiche che, negli

organismi viventi si parla di funzioni, implicando velatamente un certo finalismo o come riconoscimento

obiettivo di una certa coordinazione tra strutture e proprietà tra loro tale da rendere possibile la vita: una

certa forma di vita, coordinata messa a punto filogeneticamente e ontologicamente predeterminata lungo

tutto il suo percorso evolutivo.

E’ sopra questi argomenti che è nata, e si svolge tutt’ora, la discussione tra finalismo e determinismo, tra

Fitoterapia Tradizionale Erboristica e Fitoterapia Clinico Farmaceutica: argomenti che lo scrivente si è

sempre tenuto lontano visto che su questo punto non possiamo disquisire, poiché finalisti e deterministi

non possono diversificarsi, poiché ambedue parlano di funzioni e di organi, apparati e sistemi nei quali

troviamo sempre un elemento microscopico nella struttura della cellula

segue la seconda parte…