Gli utilizzi cosmetologici dell’incenso

Dott. Alessandro Pagnoni

L’incenso (Boswellia carterii Birdw.) è un alberetto alto al massimo 5m., tipico dell’africa nord- orientale e dell’arabia la cui droga, costituita dalla gommoresina, è raccolta a seguito di incisioni fattte sul tronco, essa si presenta in lacrime tondeggiati e irregolari di colore giallo rossastro, con odore caratteristico e sapore amaro (Maugini, 1994).

Gli utilizzi cosmetologici dell’incenso si perdono nella notte dei tempi, ed anche l’utilizzo nella medicina è profondamente radicato nella storia di tutti i popoli mediorientali; Barkai ne riferisce un utilizzo già nel medioevo per aiutare le donne nel parto, sia per stimolare le contrazioni uterine, sia per favorire la dilatazione naturale; da questo scritto si può intendere come l’incenso sia da diversi secoli considerato un ottimo antidolorifico (Barkai, 1988); questi risultati sono stati confermati da un pool di studiosi statiunitensi i quali attraverso dei test in vitro hanno dimostrato che la gommoresina di Boswellia carterii Birdw. ha un’azione inibente sui neuromediatori del dolore e che quest’azione è dose dipendente (Chevrier et al., 2005). Non vi è stato, tuttavia, solamente un utilizzo medico di questa pianta, ma anche cosmetico fin dai tempi antichi, infatti Luigi Giannelli in un articolo del 2002, citando antichi testi di epoca romana, ci porta a conoscenza di un utilizzo dell’incenso in una serie di formulazioni per la detersione cutanea e negli stati infiammatori della pelle, in queste preparazioni l’incenso era sovente accoppiato con mirra (Commiphora molmol Engl.) e con Gomma Arabica (Acacia senegal Willd.).

Dioscoride e Plinio amavano particolarmente questa pianta attribuendole elevate virtù astringenti, antinfiammatorie e cicatrizzanti, cosa che numerosi studi moderni hanno confermato attribuendo a questa droga una spiccata attività antileucotrienica, attività particolarmente potente contro le elastasi leucocitarie, l’incenso si rivela particolarmente utile in cosmesi dove è indicato per la cura della cellulite, come antinevralgico e come antidolorifico locale; inoltre si è constatato che alcune dermatosi, come la psoriasi, paiono rispondere particolarmente bene all’applicazione di questa droga (Giannelli, 2005) a causa di un’azione simil cortisonica sulle elastasi leucocitarie nel trattamento delle flogosi (Safayhi et al., 1997).

Lawless raccomanda l’utilizzo dell’olio essenziale di incenso, sia come fissativo nei profumi ove si armonizza bene con moltissime altre essenze attenuando, ad esempio, le profumazioni eccessivamente agrumate, sia in dermatologia su macchie cutanee, pelle secca, carnagione matura, cicatrici, ferite e rughe (Lawless, 1992), mentre il Lodi ne cita le virtù antisettiche e cicatrizzanti oltre a prospettarne un utilizzo cosmetico (Lodi, 2001).

Bibliografia

BARKAI R. (1988)

A Medieval Herb Tratise on Obstetrics

Medical History n°33; pagg. 96-119.

CHEVRIER M.R., RYAN A.E., LEE D.Y.W., ZHONGZE M., WU-YAN Z., VIA C.S. (2005)

Boswellia carterii Extract Inhibits TH1 Cytokines and Promotes TH2 Cytokines In Vitro

Clinical and Diagnostic Laboratory Immunology vol.12, n°5; pagg. 575-580.

GIANNELLI L. (2002)

La Cosmesi nel Mondo Antico

L’Erborista n°7; pagg. 100-104.

GIANNELLI L. (2005)

L’Incenso

L’Erborista n°6; pagg. 56-59.

LAWLESS J. (1992)

Enciclopedia degli Oli Essenziali

ed. Tecniche Nuove; pagg. 316.

LODI G. (2001)

Piante Officinali Italiane “Il Nuovo Lodi”

ed. Edagricole; pagg. 859.

MAUGINI E. (1994)

Manuale di Botanica Farmaceutica

7° Edizione Aggiornata

ed. Piccin; pagg. 540.

SAFAYHI H., RALL B., SAILER E.R., AMMON H.P.T. (1997)

Inhibition by Boswellic Acids of Human Leukocyte Elastase

Journal of Pharmacology and Experimental Therapeutics vol. 281 n°1; pagg. 460-463.

Il caffè della nonnina!

L’uomo  fin  dai  tempi  più  remoti  ha  sempre  avuto  dei  vizi, ma  a  volte  dagli  stessi vizi sono  nate  delle virtù.

E’ questo  il caso  infatti  in  cui  le  donne  delle  nostre campagne – siamo nella  Valle D’Itria – avevano  trovato un succedaneo  del  caffè  per  sopperire  alla  sua  mancanza  in  tempo  di  guerra.

Se  prima  della  guerra  il  caffè (cofea arabica) era un lusso,  durante  i  lunghi  anni  della  seconda  guerra mondiale  era  diventato  un  ricordo.

La  mia  ricerca  parte  da  “Nenella” (classe 1930),  la  signora  più  anziana  della  contrada Ventura,  sita  in agro  di  Locorotondo.

Nenella  vede nel  mio giardino una pianta  e  mi racconta che dai semi di quella pianta, quando lei era ragazzina preparavano una bevanda che sostituiva il caffè  e che loro chiamavano il “caffè americano”.

Il nome penso sia stato dato in onore dei soldati americani o forse offerto a qualche americano lui avrà replicato: “Oh yes, cafè americano!”

La pianta è l’Astragalus boeticus L.  appartenente alla famiglia  delle Fabaceae

Del  genere  Astragalo in  Puglia  ce  ne  sono  diverse  specie :

A. sesameus;  A. pelecinus; A. monspessulans;  A. glycyphyllos,  molto  comune  è  anche  l’A. hamosus  anche  detta  falciforme  per  la  sua  caratteristica  forma  dei  semi  a  uncino.

Entrambi le foto, sono piante del mio giardino, immaginate che nel mio giardino ci  sono  tutte  le  erbacce  che  altri  cercano  di  debellare  nei  loro  campi,  io  invece  ne  raccolgo  i  semi  e  li  spargo un po’ ovunque.

Torniamo  all’Astragalo boeticus

Di  questa  pianta  si  raccolgono  i  semi  a  fine  autunno, dopo  che  la  pianta  ha  perso  le  foglie,  si  seccano  all’ombra,

si  tostano  nel  forno  e  si  frantumano  sino  a  ridurli  in  polvere, in  questo  modo  poteva  essere  usato  come  succedaneo  del  caffè.

Eccoci  in  un  altra  contrada  distante  4  km  circa,  la  signora  Vitina  (classe 1935) ricorda  che  utilizzavano  le  ghiande  di  una  particolare  quercia  che  chiamavano

“u fragn dolc”  quercia  dolce.

Le  caratteristiche  botaniche  di  questa  pianta  sembrano  essere   molto  simili  alla  comune  quercia  detta  roverella (Quercus  pubescens) .

Vitina  ricorda  solo  un  particolare,  che  la  cuticola  che  riveste  parzialmente  la  ghianda  ha  un  colore  più  scuro  rispetto  alla roverella.

I  pochi  esemplari  che  lei  ricorda  nella  zona  sono  stati  estirpati  per  fare  spazio  alle costruzioni,  così  non  potrò  mai  assaggiare  il  caffè di  quercia.

Ma  da  un  appassionato  di  botanica salentino  vengo  a  sapere che potrebbe essere la Quercia castagnara che dovrebbe corrispondere alla Quercia virgiliana che è molto affine  alla  roverella.  Il  nome  comune  volgare  la  lega  alla  castagna  poiché  il  suo  seme  è  edule.  Lui  stesso  dice  di  aver  trovato  questa  pianta  nel  Parco  Naturale  dei  Paduli   – Foresta  Belvedere-  nel  cuore  del  basso  Salento  e  di  aver  mangiato  una  ghianda  appena  caduta  ed  era  commestibile,  non  amara  come  di  solito  sono  le  ghiande.

Mi  racconta  anche,  che  nel  cuore  dei  Paduli  vi  è  una  masseria  chiamata  “spaccaghiande”  e  sembra  che  il  suo  nome  derivi  dalla  locale  pratica  di  raccogliere  le  ghiande  dalla foresta  Belvedere per  spaccarle,  nel  senso  di  macinarle  per  farne  farina  per  uso  umano.

Ma  torniamo  alla  preparazione  del  cafè  di  quercia.

Vitina  racconta  che le  ghiande  venivano  arrostite  nel  forno  per  poi  essere  ridotte  in  polvere  con  i  mezzi  di  allora  “u pisasel”  .  Si  conservava  in  bottiglie  col  collo  largo  tenute  sulle  mensole  del  camino,  se  ne  aggiungeva  2  o  3  cucchiai  nella  pignata  piena  di  acqua  che  era  solito  tenere  vicino  al  camino.

Appena  l’acqua  bolliva  si  aggiungeva  la  polvere  di  ghianda  e  si  aspettava  dinuovo  il  bollore,  appena  ritornava  a  bollire  si  allontanava  la  pignata  dal  fuoco  e  si  lasciava  raffreddare  per  qualche  minuto, poi  dinuovo  si  riavvicinava  al  fuoco  per  portarla  dinuovo  a  bollore  per  essere  nuovamente  allontananta  e  lasciata  raffreddare,  dopo  la  terza  volta  che  l’acqua  bolliva,  la  bevanda  era  pronta  per  essere  gustata,  dopo  uno  spartano  filtraggio.

La  maggior  parte  delle  persone  anziane  intervistate  ricordano  il  caffè  di  cicoria,  ottenuto  dalla  radice  di  Cichorium  intybus,  famoso  un  po’  in  tutta  Italia  e  non  solo,  sembra  che  i  francesi  ne  fanno  un  largo  uso.  Anche  da  noi  sta  tornando  di  moda, infatti  da  alcuni  anni  ci  sono  piccole    aziende  che producono  e  commercializzano  il  cafè  di  cicoria.

Non  mi  resta  che  augurarvi  un  buon  caffè  a  tutti!!

Dott.ssa  Dina  Liuzzi

L’incenso

L’incenso così comunemente chiamato è una oleo-gommo-resina estratta per incisione della corteccia delle piante del genere Boswellia. Questo essudato ha avuto un ruolo di primaria importanza in tutte le culture del passato, utilizzato sia per funzioni religiose che per pratiche sanitarie. Oggi, con i mezzi a nostra disposizione, possiamo studiare le caratteristiche biochimiche e gli effetti farmacologici dell’incenso, confermando le qualità che un tempo gli venivano  attribuite attraverso un’analisi che, secondo le regole della scienza moderna, potremmo definire intuitiva.

Con il termine incenso si abbraccia l’intero gruppo di resine che venivano bruciate dall’uomo sin dalla notte dei tempi sulle braci, da sole o insieme ad altre erbe aromatiche, fresche oppure secche, per generare profumi mistici. Queste resine erano usate in gran parte del mondo antico, dalle regioni mesopotamiche alle asiatiche, per diversi scopi terapeutici e per rituali mistico-religiosi.

Pur essendo questa resina molto costosa e dunque appannaggio esclusivamente delle classi più abbienti e dei sacerdoti, l’ampio uso che ne veniva fatto diede vita ad un importante commercio della stessa, sviluppando anche delle aree commerciali e città come Petra in Giordania, e strade quali “la via dell’incenso”, rotta che collegava via terra l’Oceano Indiano con il Mar Mediterraneo.

L’impiego dell’incenso in ambito religioso e liturgico è davvero molto antico, spazia dalle religioni politeiste alle monoteiste, poiché si pensava che l’incenso ed il suo profumo avessero un’influenza sul comportamento e sull’umore delle masse, e che fossero anche un dono gradito agli dei e persino ai defunti. Divenne infatti anche parte integrante dei funerali e di ogni altro genere di culto. Per il fatto che i fumi di questa resina già erano conosciuti per le proprietà antisettiche e ricordando quelle che erano le condizioni igieniche dell’epoca, veniva usata molto spesso anche per deodorare e disinfettare gli ambienti dai cattivi odori. Una perfetta fusione quindi tra usi sacri e profani.

La preparazione e l’impiego dell’incenso era per tutte le civiltà una pratica molto spirituale. Fra gli antichi Egizi addirittura gli alberi dai quali si ricavava la preziosa sostanza erano considerati sacri e solo gli uomini puri potevano raccoglierlo dalla corteccia.

Proprio gli Egizi ci hanno tramandato la ricetta per preparare il leggendario Kyphi, composto da incenso e mirra, usato esclusivamente durante le pratiche religiose.

Per la religione cristiana assume una grande importanza andando a simboleggiare proprio il Cristo (che dal greco significa “unto”, ossia il Messia); e non a caso sono proprio i Re Magi ad offrirlo in dono a Gesù Bambino.

L’incenso è stato usato molto anche come rimedio curativo per svariati problemi, sia per uso interno che esterno, entrando a far parte dei rimedi nella medicina Egizia e Mediterranea, nella medicina Cinese ed in quella Ayurvedica.

Venne citato da Ippocrate,  da Galeno, dalla badessa Ildegarda di Bingen, da Paracelso, da Sebastian Kneipp, fino ad arrivare ai giorni nostri inserito in diverse formulazioni, come nel balsamo di Fioravanti.

Veniva usato per i più disparati disturbi, per l’alito cattivo, per le malattie infiammatorie e nervose, per problematiche bronchiali, dall’asma all’influenza, per le emicranie, i problemi intestinali, come disinfettante ed antimicrobico anche durante le pestilenze.

La medicina Ayurvedica in particolare usava, ed usa ancora, inserire l’incenso nelle preparazioni contro le forme artritiche ed artrosiche. Oggi numerose aziende produttrici di prodotti fitoterapici usano l’incenso in estratto secco sia da solo che in formulazioni rivolte a combattere ogni forma d’infiammazioni, dalle croniche alle acute, da quelle di natura traumatica a quelle di natura autoimmunitaria.

L’incenso è il nome con cui genericamente si intende parlare delle gommo-oleo-resine secrete da diverse piante arbustive del genere Boswellia, appartenenti alla famiglia delle Burseraceae. Questi alberi possono svilupparsi solo in determinate condizioni ambientali e sono anche molto sensibili alle loro eventuali variazioni ed è per questo che nascono solo in pochissime aree geografiche: nell’entroterra della costa dell’Africa orientale, nell’Arabia meridionale e al centro e al nord dell’India orientale. Crescono in presenza di clima caldo e con scarse precipitazioni; l’acqua che gli è necessaria la ricavano dalla rugiada mattutina e dalla poca umidità del suolo asciutto.

Fra le piante più importanti e conosciute citiamo la Boswellia sacra o carterii Birdw., detta anche Frankincense, la Boswellia frereana e la Boswellia thurifera o serrata, detta Salai Guggul ed anche olibano, dall’aroma tipicamente agrumato.

Con il genere Boswellia ci riferiamo all’albero che ha un’altezza media di tre o quattro metri, ha un aspetto tozzo con il fusto corto ed i rami nodosi, delle radici incredibilmente profonde e ramificate in grado di estendersi intorno all’albero per un raggio di oltre cinquanta metri e in profondità può arrivare fino ai trenta metri.

Le foglie sono piuttosto piccole limitando così la superficie di esposizione al sole, riducendo quindi al minimo l’evaporazione dell’acqua. Sono alterne, con stilo mollemente tomentoso, senza stipole, riunite in un denso ciuffo apicale o spaziate sul ramo giovane, composte, imparipennate, lunghe dai 15 ai 25 centimetri, perlopiù arrotondate alla base e con apice ottuso, alquanto ondulate o crenato dentate. La Boswellia serrata, pianta che cresce esclusivamente in India, ha come differenza con le sue parenti africane la struttura delle foglie che sono più dentellate delle altre.

I fiori sono peduncolati, abbastanza piccoli e raccolti in racemi semplici e lassi; anche il frutto è piccolo e obovato, con pericarpo liscio e carnoso.

La resina si ottiene praticando un’incisione sottile sulla corteccia dell’albero in modo che dai dotti resiniferi esca il lattice che al sole indurisce rapidamente. In Africa viene raccolto in genere da ottobre ad aprile, in India invece da giugno a settembre. La quantità di resina che un albero può produrre varia a seconda della grandezza della pianta e della sua posizione geografica: quello africano ne produce dai tre agli otto kg, mentre quello indiano dai due ai tre kg.

L’incenso entra in commercio sottoforma di masse dure, il cui colore può variare dal bianco-giallastro al bianco-rossastro, al cui interno spesso si trovano lacrime piriformi più trasparenti.

E’ difficile stabilire da quali e quanti principi attivi sia composta l’oleo-gommo-resina, per la diversità  di specie delle piante da cui viene estratta e dei climi in cui esse crescono.

Possiamo dire che sono sempre presenti:

–         Acidi triterpenici pentaciclici (acidi boswellici costituiti principalmente da acido b-boswellico e suoi derivati, acodo a-boswellico e g-boswellico;

–         Acidi triterpenici tetraciclici: acidi tirucallenici;

–         Polisaccaridi: D-galattosio, D-arabinosio, D-mannosio e D-xilosio;

–         Altri: olio essenziale (a-pinene, a-fellandrene, alcoli sesquiterpenici, aldeide anisica e fenoli) e fitosteroli (b-sitosterolo);

–         L’incensole acetate, recentemente scoperto.

Abbiamo parlato precedentemente di come in passato venisse usato l’incenso per le più disparate problematiche. Ora, grazie alle ricerche effettuate, possiamo confermare la fondatezza di numerosi usi tradizionali.

La piante maggiormente studiate sono state la Boswellia serrata, probabilmente perché è la resina di questo albero che viene usata nella medicina Ayurvedica, inserita in formulazioni note per il loro notevole effetto antinfiammatorio, e la Boswellia carterii, nota invece per gli altri usi liturgici dell’incenso. Ho trovato una lista impressionante di pubblicazioni, edite dalle riviste scientifiche internazionali, riguardanti esperimenti effettuati con  metodiche di ogni genere, utilizzando gli estratti di incenso sia in vivo che in vitro, per uso interno e per uso esterno. Sono stati fatti studi anche sul fumo dell’incenso, che mettono in luce quanto sia dannoso a livelli di cancerogenicità respirarlo; questo purtroppo è un dato di fatto, qualsiasi cosa portata a combustione sviluppa delle micro particelle (IPA) potenzialmente cancerogene.

Altre ricerche sull’incenso hanno anche evidenziato come l’effetto psicoattivo non sia solo suggestione ma reale, dato da una molecola che è l’incensole acetate isolata dalla resina.

La potente attività antinfiammatoria clinicamente dimostrata è essenzialmente attribuita all’acido boswellico, ma anche quest’incensole acetate sembra che giochi un ruolo importante inibendo l’attivazione di una proteina (la NF-kB) nella risposta infiammatoria.

Andiamo ora a spiegare in poche parole cosa succede in un processo infiammatorio: l’infiammazione o flogosi è una cascata di processi che avvengono in un tessuto vivente in risposta ad un evento lesivo. I principali mediatori del processo infiammatorio sono i leucotrieni e le prostaglandine, che prendono origine da un comune precursore che è l’acido arachidonico, un acido grasso polinsaturo che costituisce la membrana cellulare e che viene liberato, a seguito di opportuni stimoli, dall’enzima fosfolipasi. Nella forma libera l’acido arachidonico può entrare in due differenti vie metaboliche: una è la via della ciclo ossigenasi che porta alla sintesi di prostaglandine e trombossani; l’altra è una reazione catalizzata dall’enzima 5-lipossigenasi e porta alla sintesi dei leucotrieni. Gli stessi leucotrieni sono poi coinvolti anche nei meccanismi di immuno-stimolazione caratteristici dell’artrosi, provocando la migrazione dei leucociti dal sangue ai tessuti infiammati. Inoltre fanno aumentare il livello delle transaminasi nel sangue e bloccano le reazioni cataboliche che provocano la degradazione cellulare del tessuto connettivo che porta poi alla deformazione degli arti.

L’acido boswellico esplica la sua azione antinfiammatoria fondamentalmente attraverso due meccanismi di azione:

1- inibisce selettivamente la 5-lipossigenasi bloccando così la sintesi dei leucotrieni che sono i principali responsabili della formazione dell’infiammazione acuta e cronica.

2- inibisce la migrazione leucocitaria dal sangue ai tessuti infiammati e di conseguenza l’elastasi, enzima proteolitico presente nei leucociti e responsabile della distruzione del collagene e dell’elastina, quindi dei tessuti coinvolti nel processi infiammatorio, prevenendo così la degenerazione articolare.

Per quanto riguarda invece l’attività psicoattiva dell’incenso bisogna dare il merito all’incensole acetate che si è mostrato un agonista di un canale ionico (TRPV3) presente nella pelle ed implicato nella percezione del calore, e presente nei neuroni, dove non è ancora ben chiaro il suo ruolo, tuttavia entra nelle reazioni a cascata che generano ansia e depressione. Infatti utilizzando l’elettroencefalogramma si è potuto constatare come l’odore dell’incenso amplifichi l’attività corticale ed il processo inibitore della risposta motoria. Ciò significa che aumenta le nostre capacità intellettive ed al contempo rilassa il sistema nervoso, confermando con basi biologiche l’efficacia dell’uso che ne veniva fatto secondo tradizioni culturali e religiose.

L’utilizzo dell’incenso non ha nessun effetto collaterale, sono riportati esclusivamente rari casi di reazioni cutanee di natura allergica.

Gli acidi boswellici non hanno effetti tossici, infatti sono stati somministrati per bocca dosi massicce di estratto secco della resina ai ratti a digiuno, dimostrando di non danneggiare in nessun modo lo stomaco e non provocando neanche tossicità epatica. Non ci sono dati sul suo uso in gravidanza e allattamento, comunque può essere usato in età pediatrica a partire dal quarto anno di età senza nessun rischio.

Raccogliendo tutti questi dati, osserviamo che le sue qualità sono molteplici, tanto da essere impiegato per aiutare il corpo a superare numerose malattie comprese quelle seriamente invalidanti.

Possiamo dire quindi con dei risultati alla mano che la Boswellia ha proprietà antinfiammatorie ed antiartritiche sia per uso esterno che interno. Può essere pertanto impiegata nel trattamento di numerosi disturbi sia di natura autoimmune quali l’artrite reumatoide, la colite ulcerosa, il morbo di Crohn, la malattia di Bechterew, il lupus eritematoso, la psoriasi, sia per le altre affezioni di natura infiammatoria a carattere cronico quali l’osteoartrite, la spondilite cervicale, le affezioni del tratto urogenitale, la gotta, l’asma bronchiale e l’enfisema polmonare; quindi è utile inserire l’estratto della boswellia sia nei trattamenti per le infiammazioni di natura transitoria, ma soprattutto è importante usarla per le malattie seriamente invalidanti essendo un notevole aiuto per recuperare il proprio benessere senza però alcun tipo di controindicazioni ed effetti collaterali, tipici dei farmaci che ora vengono consigliati per affrontare questo tipo di malattie come quelli di natura steroidea, tipo il cortisone, ed i classici FANS.

Inserita in pomate o in unguenti possiede comunque un’azione antinfiammatoria e addirittura può essere un valido aiuto all’epidermide per prevenire i danni dei raggi UV.

Per quanto riguarda l’effetto sulla psiche del profumo dell’incenso, i dati confermano quanto sia rilevante il suo contributo nelle meditazioni, nelle preghiere e in tutti quei rituali che mettono in comunicazione il corpo con la propria spiritualità, avendo un’azione rilassante e al contempo aumentando le attività percettive.

E’ entusiasmante osservare come le culture da cui discendiamo conoscevano tutte queste qualità della preziosa resina senza però possedere i nostri avanzati strumenti di indagine e come il nostro lavoro quindi è stato quello di confermare ciò che già sapevano.

Accendiamo le braci e bruciamo più incenso…chissà che non ci rimetta in contatto con la nostra vera essenza!

 Ira Archilei

BIBLIOGRAFIA:

▪  “L’incenso” di Peter Grunert, Pisani Editrice;

▪  The FASEB Jurnal article fj.07-101865. Published on line May 20, 2008;

▪  Neuropsychobiology. 2009;59(2):80-6. Epub 2009 Mar 27;

▪  BMC Complement Altern Med. 2009 Mar 18;9:6;

▪  Jurnal Ethnopharmacol. 2006 Sep 19;107(2):249-53.Epub 2006 Mar 17;

▪  Mol Pharmacol. 2007 Dec;72(6): 1657-64.Epub 2007 Sep 25;

▪  J Cereb Blood Flow Metab. 2008 Jul;28(7): 1341-52.Epub 2008 Apr 16;

▪  “Nuovo erbario figurato”, G. Negri; Ed. Ulrico Hoelpi;

▪  “Botanica farmaceutica”, E. Maugini; Ed. Piccin;

▪  Wikipedia.

Piante della Val d’orcia – l’iperico

DA LUIGI GIANNELLI – 18/12/2013

PUBBLICATO SULLA RIVISTA “PER LA VAL D’ORCIA”

Sicuramente, tra le piante erbacee, l’Iperico è una delle piante che gode del massimo prestigio! Inoltre, nella Val d’ Orcia è pianta frequente e comune, tutti gli anni si trova ed ha meravigliose proprietà; a volte è meno comune a volte occupa interi ettari, se lasciati incolti.

In verità l’abbiamo già citata in relazione ad un preparato che richiedeva anche l’uso delle “borse” dell’ Olmo. Ma è giusto dedicarle lo spazio che merita, visto che è pianta largamente usata sia nella tradizione popolare sia nella moderna Erboristeria.

Dioscoride, il medico delle legioni del I° secolo d.C., nella sua “Materia Medica” (ovvero la raccolta di rimedi singoli ed alcuni preparati più grande dell’ area mediterranea antica), cita l’ Iperico nel III° Libro dell’opera, in ben quattro capitoli (dal 165° al 168° – vers. Mattioli); questo perché di questa pianta ne vengono riconosciute più specie e più varietà; a nostro modesto parere, alla fine, se è vero che a seconda delle zone e delle aree geoclimatiche si possono trovare varietà e specie molto affini tra di loro del genere “Hypericum”, tutte aventi le stesse proprietà.

Passiamo al testo (che riportiamo nella versione del XVI° secolo del Mattioli, con piccole varianti per la migliore comprensione del testo):

<< Cap. 165° –  Dell’ Hiperico. Chiamano alcuni l’ Hiperico androsemo [ovvero “sangue umano”], altri corio [cuoio, ma anche pelle, per l’attività che ha su di essa], & altri chamepitio [“simile al Pino”], per avere il suo seme odore di ragia di Pino; è pianta ramuscolosa. Ha le foglie simili a quelle della Ruta, il fiore giallo, simile alle Viole bianche; questo fiore sfregato tra le dita, emette un liquido simile al sangue, per questo è stato nominato “Androsemo”. Ha le silique pelosette, di forma allungata e rotonda, di grandezza dei garni di Orzo; nelle quali è dentro il seme nero, di odore resinoso; nasce in luoghi coltivati ed aspri. Provoca l’orina, applicato ai genitali femminili, provoca i mestrui. Bevuto nel Vino cura la terzana e la quartana [febbri ricorrenti tipiche di malattie come la malaria]. Il seme bevuto quaranta giorni continui, guarisce le sciatiche [e qui si intende sia l’aspetto neurologico sia quello articolare]. Le foglie applicate come empiastro insieme al seme, giovano alle ustioni da fuoco.>>

<< Cap. 166° – Dell’ Asciro. Ovvero Asciroide, ovvero Androsemo, è anche questa una specie di Hiperico, ma differente per la sua grandezza, è più folto ed i suoi rametti sono più lunghi, più legnosi & rosseggianti, le foglie sottili, & i fiori gialli. Produce il seme di odore resinoso, come quello del’Hiperico; sfregato con le dita, subito insanguina le mani; & perciò lo hanno chiamato Androsemo [vedi sopra]. Giova bevuto il seme in un sestario di Acqua Melata [un sestario era poco più di mezzo litro (540 ml) e l’Acqua Melata era preparata bollendo insieme uno o più litri di acqua con un litro di miele, fino a tornare – evaporando l’acqua a un litro], alle sciatiche; perciò scioglie gli Umori Cholerici [vale a dire biliari], ma bisogna continuare a beverlo fino a perfetta salute. Anche esso si applica utilmente come empiastro sulle ustioni da fuoco >>.

<< Cap. 167° – Dell’ Androsemo. L’ Androsemo è diverso sia dall’ Hiperico che dall’Asciro, poiché cresce con rami duri & legnosi, & sottili, & rosseggianti fusti; & le sue foglie sono tre o quattro volte più grandi di quelle della Ruta, le quali quando si tritano, rendono un liquido simile al Vino [rosso!]. Sono nella sommità dei fusti assai concavità di ali [vuol dire che le foglie, unite due a due, formano verso il fusto o il ramo una concavità], dalle quali escono alcuni ramoscelli a forma di penna, attorno ai quali sono i fiori gialli, & piccoli. Serrasi il suo seme puntato di più linee in frutti a forma di vasetto, simile al quello del Papavero Nero. Le chiome triturate, spirano odore resinoso. Il seme bevuto al peso di due dracme [8-9 gr circa], solve gli Humori Cholerici [Biliari] del corpo; sana le sciatiche, ma occorre dopo la purga, bere un po’ d’acqua. L’ erba applicata come

empiastro cura le ustioni da fuoco e ristagna il sangue >>.

<< Cap. 168° – Del Cori. Il Cori il quale chiamano alcuni Hiperico, che produce le foglie simile all’ Erica, rosse, più grasse, & più piccole, non più alta di una spanna, d’odore aggradevole a acuto. Il seme bevuto provoca i mestrui, & l’orina. Preso con Vino, giova ai morsi di quei ragni che chiamano “Falangi” [ragno comune, di specie diverse e diverse dimensioni, che si trova dall’ area mediterranea fino all’Africa, dove si trovano esemplari molto grandi; in realtà non è particolarmente velenoso], alle sciatiche, ed allo spasimo detto “opisthotono”. Si applica come unzione sul corpo con Pepe, nei rigori [tremiti] che precedono le febbri, ed all’ “opisthotono” utilmente con olio.>>.

L’ opistotono è una caratteristica tensione-spastica, di varia origine o traumatica o da avvelenamento o da infezione da tetano o altro, che provoca la piegatura della colonna vertebrale (tutta), all’indietro, tenendo chi la soffre nella tipica posizione “ponte”; esiste un quadro di Sir Charles Bell, che mostra un ammalato di tetano con opitostono (il quadro è del 1809 ed è “fotografico”).

Galeno, il medico di Marco Aurelio (rimase a corte fino alla morte, ai tempi di Settimio Severo, dato che morì circa a 82 anni, in barba a chi dice che al tempo dei Romani la gente viveva meno di 40 anni. Al solito dipende chi; ancor oggi ci sono popoli poverissimi, dove le malattie, la malnutrizione, la fatica fisica estrema non consentono di essere longevi; la longevità è dovuta a fattori sociali, non di “epoca”), parla dell’ Iperico nel VIII° Libro del suo “Le virtù dei semplici medicamenti” (semplici intesi come “ingredienti di medicamenti complessi”):

<< L’ Iperico scalda e dissecca, è composto di così sottili parti, che provoca i mestrui e l’orina; per avere questi effetti non basta assumere il seme solamente, ma tutto il frutto [ovvero il fiore maturato]; questo applicato come empiastro da fresco, non solo cicatrizza le ferite e le ulcerazioni, ma anche le ustioni da fuoco. Essiccato e ridotto in polvere e applicato alle ulcerazioni purulente e umide, le sana. Alcuni lo danno per la sciatica >>. Poi anche Galeno fa riferimento ad Asciro ed Androsemo, che considera varietà dell’Iperico, con proprietà analoghe a quelle che dice Dioscoride, non nomina il Cori, ma dice che l’Iperico è chiamato anche “Dionisio”. Fa una interessante aggiunta << Il decotto fatto nel Vino è cura valorosa per le ferite grandi >>.

Insomma, sia Dioscoride che Galeno, riconoscono che esistono varietà della stessa pianta, e che hanno più o meno le stesse proprietà; Galeno è più sintetico, ma molto più preciso.

In effetti, fin dall’antichità sono riconosciute all’Iperico tre grandi attività: 1 – quella su ferite, ulcerazioni e contro le ustioni da fuoco; 2 – quella sull’apparato neuro-articolare, in particolare per la sciatica; 3 – una azione neurologica centrale (tremori ed opistotono). Oggi gli è riconosciuta l’azione antidepressiva; se gli antichi non l’hanno rilevata, è perché il tipo di depressione (malattia da sempre riconosciuta, raccontata con parole diverse) nel mondo antico, si esprimeva in modi diversi ed  era curata con le piante cordiali, come la Rosa, la Viola, la Borragine.

Dalla tarda romanità in poi, emerge la preparazione dell’ estratto oleoso di Iperico, quello che si usa fare triturando le sommità fiorite, miste a fiori già “maturati” in frutti, e ponendole a macerare in olio vegetale, esponendo i vasi di vetro al Sole per una decina di giorni e poi lasciare macerare il tutto al buio. Un tempo si metteva del Vino bianco insieme, che poi veniva fatto bollire e evaporare, così si accentuava il processo di estrazione e si sterilizzava la massa olio-pianta. Poi il tutto veniva fatto scolare e spremuto, separate le ultime tracce di residuo acquoso. Chi scrive ha usato un’altra tecnica: alla pianta fresca triturata, aggiunge del Sale, che blocca tutti gli eventuali processi degradativi; dopo esposizione  al Sole, macerazione successiva, poi scolatura, pressatura, filtrazione accurata, si ottiene un oleolito di Iperico di grande potenza.

Ma potenza per fare cosa? Ebbene l’oleolito di Iperico è straordinariamente efficace per la cura delle ustioni da fuoco, come dicevano gli antichi, per le ulcerazioni torpide, per le piaghe da decubito, per le ferite in generale. Utile metterlo anche negli oli per i massaggi per i dolori nevritici e articolari.

Invece, oggi, per uso interno l’ Iperico è usato solo come antidepressivo.

Ma guardiamolo anche con una visione moderna; cosa contiene?

Contiene: olio essenziale (a sua volta composto in prevalenza di metilottano, metildecano, nonano, andecano, a e b-pinene, limonene, mircene, cariofillene, decanale, ottanale, a-terpineolo, geraniolo) flavonoidi (iperina, rutina, quercetina), diantroni (ipericina, emodinantrolo), tannini, fitosteroli, acidi organici, furanocumarine.

Azioni accertate oggi: per uso esterno – antiinfiammatoria, cicatrizzante, antiustioni e antipiaghe da decubito. Per massaggi antireumatici.

Tisane e composizioni fitoterapiche

ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO E’ STATO PUBBLICATO SULLA RIVISTA “L’ ERBORISTA” – EDIZIONI TECNICHE NUOVE SPA, TRA FEBBRAIO E MARZO 2007.

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI E PROPRIETA’ DELLA CASA EDITRICE.

PER GENTILE CONCESSIONE.

AUTORE: LUIGI GIANNELLI

In questa occasione ci occuperemo delle tisane e delle composizioni fitoterapiche per il trattamento degi squilibri legati all’ Elemento Fuoco ed all’asse fegato-cistifellea.

In pratica le nostre composizioni interverranno sia sulla secrezione biliare, sia sui suoi effetti  a livello intestinale, renale, della reattività immunologica (come allergie, intolleranze, reazioni autoimmuni), di alcune particolari dermatosi, e soprattutto sulle principali vie metaboliche; sono disfunzioni “biliari”, in modo diretto o indiretto le dislipidemie, il diabete, l’iperuricemia.

Tutti i processi infiammatori sono in qualche modo legati all’ aspetto Igneo, Biliare. Un soggetto arrossato, irascibile, pieno di pruriti e magari anche con alcuni tessuti (da quelli di organi interni a quelli cutanei e articolari) fortemente infiammati.

E’ chiaro che ogni affezione nasce dal concorso di molti Elementi e Umori e sistemi organici, ma alcune sono prevalentemente dominate dal Fuoco-Bile gialla.

Volendo agire tempestivamente su organi, funzioni, Umori, non possiamo esimerci dal trattare un problema secondo varie angolazioni, magari con cicli di trattamento, in parte sintomatici, in parti “di terreno” e/o di drenaggio specifico.

Rammentiamo che la maggior parte di queste composizioni va somministrata dopo un breve decotto (dai due ai cinque minuti), seguito da una prolungata macerazione (da due ore a tutta una notte), filtrando e bevendo in tre-quattro volte lontano o prima dei pasti principali, anche a temperatura ambiente. Sconsigliamo di bere tisane appena tolte dal frigorifero. La dose è di 20 gr di miscela al giorno per 1 litro di acqua oligominerale.

Incominciamo con una composizione, forse banale, ma che permette un drenaggio biliare intenso e specifico.

E’ adatta in tutti quei casi che un blocco “Freddo” e ostruttivo a livello della cistifellea; è costituita solo da piante Calde:

Curcuma         30 %

Fumaria          30 %

Boldo              20 %

Rabarbaro       10 %

Combreto       10 %

Quando invece si vuol preparare un composto Freddo e depurativo, agente nel lungo periodo, si possono usare piante Fredde:

Cicoria                       20 %

Bardana          30 %

Gramigna       10 %

Parietaria        20 %

Tarassaco       10 %

Quest’ultima è adatta per le sindromi allergiche, alternata con quella del primo tipo; la prima espelle il Calore Biliare, la seconda lo compensa, mentre delicatamente lo espelle.

Utili sono i Fiori Freddi, come la Viola Tricolor e il Papavero rosso; esse per la eccessiva freddezza è opportuno abbinarle a piante più Calde, prima tra tutte la Curcuma.

Curcuma           50 %

Papavero rosso  25 %

Viola tricolor   25 %

Grande antidermatosico e antipruriginoso:

Papavero rosso   20 %

Viola tricolor    20 %

Olmo                 40 %

Fumaria             20 %

Le composizioni preparate con piante Calde, possono essere usate in tutte le stagioni (anche in quelle Calde), dato che comunque la loro azione è “centrifuga”; il drenaggio biliare è volto verso l’esterno.

Invece le composizioni Fredde vanno molto bene soprattutto in Primavera, dominata dall’ Elemento Aria, Caldo e Umido. Anzi sono particolarmente adatte, dato che da un lato rinfrescano – se ce ne fosse bisogno – l’eccesso di Calore, a volte accumulato durante l’inverno, a causa di una alimentazione ricca di grassi, carni, cibi lungamente cotti. E’ vero che questi cibi sono adatti alla stagione invernale, ma è anche vero che spesso c’è chi esagera.

In ogni caso il drenaggio biliare con piante Calde va fatto quando occorre rapidità, soprattutto se ci sono disturbi intestinali, fatti infiammatori ad organi interni, tendenze a squilibri metabolici.

La tisana con Curcuma e Rabarbaro va benissimo quando si vuol preparare l’organismo ai trattamenti più specifici per i problemi metabolici, come dislipidemie e diabete.

L’ utilizzo di tisane con piante Fredde è più adatto quando si vuole un effetto nel periodo lungo, dolce, delicato e soprattutto, preventivo.

Inoltre, quello con piante Fredde è particolarmente utile quando si vuole agire per prevenire reazioni allergiche, legate alla stagionalità, come le pollinosi.

La tisana a base di Bardana è perfetta come cura/prevenzione delle reazioni allergiche primaverili.

Abbiamo visto che piante come la Fumaria, l’Olmo, la Viola e il Papavero rosso sono particolarmente indicate nelle dermatosi.

Attenzione:

le dermatosi indicano due grandi squilibri, che se non trattati, possono evolvere in malattie ben più gravi: da un lato c’è una debolezza di stomaco (e ne parleremo meglio per le tisane che servono a “governare” l’Elemento Acqua) e dall’altro c’è un notevole squilibrio epatico, che conferisce soprattutto rossore e prurito.

Quindi in questi casi occorrono, oltre alle piante stomachiche, anche piante che rinfrescano il fegato e drenano rapidamente la Bile gialla (secrezione biliare) ristagnante.

Olmo, Gramigna e Piantaggine agiscono sul Calore epatico e su quelli, conseguenti, intestinale e renale.

Utili, oltre a Parietaria e Piantaggine (che agiscono sui fatti semplicemente infiammatori anche su quelli ulcerosi) che si costituiscono sulla mucosa intestinale, le piante diuretiche, sia Fredde, come l’Equiseto (anche esso cicatrizzante intestinale), sia Calde come l’Ononide e le radici delle Ombrellifere, soprattutto di Finocchio e di Sedano.

Grande pianta epatica è l’ Agrimonia, che compie le sue funzioni sulla “massa” epatica, favorendo la ricostruzione dell’epatocita funzionale, come nelle steatosi e le cirrosi nei primi stadi, ma è anche un ottimo diuretico e un importante regolatore metabolico.

L’Agrimonia si accompagna molto bene al Cardo Mariano della quale è complementare ricostruttore dell’epatocita, alla Ceterach, che sblocca e alleggerisce la milza, la Malva che compie una potente azione emolliente e antiinfiammatoria su tutto il tubo digerente (stomaco e intestino). E’ anche, a somiglianza dell’Elicriso (che vedremo dopo), un antiallergico, anche se delicato.

Una eccellente tisana a base di Agrimonia, in due versioni, serve a curare l’iperuricemia e la gotta:

Agrimonia,

Betulla,

Frassino,

Mais stigmi, parti uguali, magari con un po’ di più di Agrimonia;

l’altra versione:

Agrimonia 40 %,

Ceterach 20 %,

Malva 20 %,

Papavero rosso 20 %,

eccellente equilibratore e antiinfiammatorio nelle forme epatitiche.

Grandioso rimedio, derivante dalla tradizione popolare e colta, eccellente nelle dislipidemie, come ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia, è questo:

Carciofo 20 %,

Betulla 20 %,

Equiseto 20 %,

Curcuma 40 %.

Altro rimedio drenante biliare, di grande potenza nelle forme di psoriasi ribelle è anche essa a base di piante molto amare, come il Carciofo e la Centaurea minore:

Carciofo 20 %,

Centaurea minore 10 %,

Olmo 30 %,

Ononide 20 %,

Equiseto 20 %.

Le composizioni epatiche sono, tra l’altro molto efficaci anche nelle affezioni virali, come quelle da raffreddamento; tra le piante si trova l’ Elicriso, pianta epatica molto Calda, adatta anche alle forme di degenerazione della cellula epatica (epatiti, cirrosi); si può supporre che queste composizioni abbiano anche una azione immunoattiva:

1 – Boldo 40 %,

Eucalipto 40 %,

Elicriso 20%.

con questa, prima se ne aspirano i vapori in un suffumigio, poi, quello che rimane, si beve ben caldo.

Agisce anche sulle riniti di origine allergica.

La seconda viene sia dalla tradizione popolare, ma si ritrova anche in una grande Farmacopea settecentesca (quella di Giovanni Andrea Murray, medico di Corte del Re di Danimarca):

2 – Camedrio,

Centaurea minore,

China, parti uguali.

essa è febbrifuga e, come l’altra agisce anche sulle infiammazioni intestinali e su quelle articolari.

Dato che il Camedrio è da tempo vietato, lo si può sostituire (con effetti più modesti), con il Carciofo.

Tale sostituzione era accettata anche da Galeno. Per la verità Galeno riteneva che il Camedrio può essere sostituito dal Romice, ma il Romice può essere sostituito dal Carciofo. In questi casi vediamo come più adatto, per il suo potente effetto coleretico e colagogo, il Carciofo.

Due parole sull’Elicriso: questa pianta fu ampiamente studiata e somministrata dal celebre medico Santini nella Garfagnana degli anni ‘50 e ‘60 del XX° secolo.

Esso, oltre all’azione epatica, coleretica, colagoga, drenante biliare, manifesta anche intense proprietà sulle affezioni articolari (anche nell’ artrite reumatoide, malattia autoimmune) e nelle forme ribelli della psoriasi; inoltre possiede anche una intensa azione anticefalalgica: il dolore di testa è una classica manifestazione biliare. E’ anche un eccellente rimedio per le affezioni mucose dell’apparato respiratorio; agisce potentemente sia sulle forme microbiche che su quelle virali. Seda la tosse e favorisce l’espettorazione. Inoltre è un grandissimo rimedio di tutte le forme allergiche.

Ma anche l’ Elicriso, come del resto l’Agrimonia, non è pianta che dà il meglio di sè da solo.

E’ molto Caldo, a volte troppo, e alcuni mal lo tollerano, da solo.

Non c’è dubbio che gli aspetti infiammatori e tussivi delle affezioni respiratorie siano correlate con una certa stasi biliare e con una Bile gialla irritativa che brucia e irrita in tutti i luoghi che “tocca” (quindi anche sull’apparato respiratorio).

Noi, sulla base dell’esperienza dei vecchi Erboristi e Medici del passato nemmeno tanto remoto, amiamo unire l’Elicriso a due grandi piante drenanti biliari: una è la Fumaria, che per gli antichi espelle la Bile per via renale e l’altra è la Curcuma, che la espelle per via intestinale; addirittura nei soggetti stitici, al posto della Curcuma (o in aggiunta) si può mettere del Rabarbaro. Droga lassativa si, ma anche energico coleretico e colagogo, secondo i medici di lingua e cultura Araba, soprattutto Mesuè, medico della Corte del califfo di Bagdad nel VII°-VIII° secolo d.C.

Grande formula per varie affezioni di origine (prevalente) biliare, come dermatosi pruriginose, dolori articolari di varia natura, cefalea, affezioni respiratorie con molto muco, tosse incoercibile, asma anche allergica, sinusite, oculorinofaringite, anche essa di origine allergica:

Elicriso 20 %,

Curcuma 30 %,

Rabarbaro 10 %,

Agarico bianco 20 %,

Cannella 20 %.

La Cannella, anche se oggi vi è stata scoperta una grande azione antidslipemica (quindi agente sull’area epatica) è un potente rimedio per lo stomaco, che concorre in modo determinante sulle affezioni prima descritte. L’ Agarico bianco è un notevole complemento dell’azione dell’Elicriso: esso “strappa” le mucosità respiratorie e i sieri aggressivi che si “rintanano” all’interno delle cavità articolari. Inoltre la coppia Elicriso-Agarico rappresentano un eccellente “squadra” immunoattiva, antivirale e antimicrobica in generale.

Anche l’ Agarico bianco, fungo delle Poliporacee, oltre all’azione immunoattiva e antimicrobica, possiede un’ottima azione coleretica e colagoga, e per questo rientra nella composizione di molti liquori digestivi.

La “tribù” delle Composite ci dà una bella quantità di piante agenti sulla secrezione biliare e per il drenaggio biliare e renale, oltre al Carciofo: sono spesso Fredde, ma agiscono nel medio-lungo periodo  e servono come regolatori metabolici (colesterolo, trigliceridi, glicemia, uricemia), come la Bardana, il Tarassaco e la Cicoria.

Si possono associare sia a piante diuretiche, che ne intensificano l’effetto generale e ai coleretici più energici, che rendono le cure più rapide, come la Curcuma, il Boldo, il Combreto.

Ma torniamo al nostro Fuoco Biliare.

Quali sono i segni caratteristici sulla persona, la postura il carattere e che segnalano la necessità di operare attraverso le composizioni che abbiamo esaminato?

Un portamento fiero e altero, rapidità di movimenti, uno sguardo intenso, ardente, con gli occhi socchiusi e con una continua tendenza a stringere di più l’occhio destro, dolorabilità (di varia origine) sulla parte destra e soprattutto nell’area scapolare (la “faretra di Diana”), una emicrania più che altro nella parte destra o cefalea dopo l’assunzione di bevande alcoliche, di cibi fritti, di salumi, cefalea derivante dall’inazione (il soggetto “impostato” dalla Bile ha necessità di azione e movimento), l’ irascibilità, la tendenza alla violenza ed al comando, tutte cose che abbiamo già visto quando abbiamo parlato, in precedenti interventi, del Fuoco Biliare.

Le reazioni autoimmuni, le epatiti, la congestione e la stasi biliare su base emotiva, la tendenza alla formazione di calcoli o sabbia biliare. Il grande Calore mal circolante, è destinato a concentrarsi in alcuni organi, diversi a seconda dei soggetti, creando infiammazioni, reazioni autoimmuni e calcoli biliari.

Tutte le tisane, soprattutto quelle Calde e drenanti e quelle unite a diuretici, servono soprattutto a smuovere, a far circolare questo grande Fuoco ed a utilizzarlo in modo proprio. Le stesse affezioni metaboliche indicano una stasi di Fuoco: espellendo l’eccesso e/o favorendo la sua circolazione, insieme con rinfrescanti epatici (come la Gramigna, la Parietaria, L’Equiseto, la Bardana, la Cicoria, ma anche il succo degli Agrumi e le bacche di Rosa Canina), servono egregiamente a dominare e governare il Fuoco Biliare e epatico e a risolvere la maggior parte delle affezioni connesse alla sua stasi.

Per coloro che non volessero prendere le tisane, per il poco tempo disponibile e per il loro non sempre gradevole sapore, si possono sostituire con miscele di tinture madri o estratti fluidi, rammentando tuttavia che gli effetti saranno meno pronti e un po’ più blandi.

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BIBLIOGRAFIA

 

Platone – Opere complete – varie edizioni

Lucrezio T.C. – “De rerum natura” – varie edizioni

Apuleio – “Metamorfosi” – varie edizioni

Vitruvio P. – “De Architectura” – a cura di P. Gros – Einaudi – Torino 1997

Varrone M. T. – “Opere scelte” – Classici UTET 1974 – rist. 1996

Plinio G.S. “Storia Naturale” – vers. M.L. Domenichi – Venezia – 1612

Plinio G.S. “Storia Naturale”a cura di G.B. Conte – Einaudi – Torino 1983-1995

Plutarco “Quaestiones conviviales” – varie edizioni

Dioscoride P.  “Materia Medica” – vedi vers. Ruellio – Venezia 1538 e Mattioli – Venezia 1557 e                                                                                                                                                               1568.

Galeno C.  “De Compositione medicamentorum secundum locos” – vers. J. Cornario – XVI° sec.

Galeno C. “De Antidotis”

Galeno C. “De Compositione medicamentorum per genera”

[le tre opere sopra citate fanno parte di una raccolta danneggiata del  XVI° sec.].

Galeno C. “Methodi Medendi” – Edizione generale – Venezia 1565

Galeno C. “De Simplicium medicamentorum facultatibus” vers.   Gaudano – Lione 1547

Alessandro di Tralles  – “I Dodici libri di Medicina” – Venezia 1573 (originale: VI° secolo d.C.)

Gemmoterapia

Introduzione alla conoscenza e all’uso degli estratti embrionali giovanili delle piante officinali

Breve storia dei gemmoterapici

L’introduzione dei derivati delle gemme e, più in generale, degli estratti ottenuti da tessuti giovanili vegetali, si deve al genio ed all’intuizione del medico e biologo belga Pol Henry. Si tratta non di una branca specifica della fitoterapia ma di una vera e propria disciplina avente le sue caratteristiche e peculiarità.

I tessuti embrionali vegetali, infatti, presentano caratteristiche del tutto particolari se paragonati a tessuti adulti; intanto, bisogna far notare come le cellule giovani hanno la caratteristica di essere le uniche in grado di dare sviluppo alla pianta adulta contenendo in se tutte le informazioni necessarie alla successiva differenziazione di apparati morfologicamente e funzionalmente diversi (apparato foliare, radicale, tessuto lignificato ecc). E’ noto e sperimentalmente dimostrato che un’unica cellula vegetale embrionale (detta cellula meristematica e meristema il tessuto che la contiene) può ricreare l’intero vegetale adulto. Inoltre, la cellula giovane si presenta priva di vacuolo (presente solo nella cellula adulta), ha un elevato rapporto nucleoplasmatico (cioè il contenuto di citoplasma rispetto al nucleo è molto più elevato che non nella cellula adulta), presenta un’elevata concentrazione di DNA e RNA, enzimi, protidi e tutti i fattori necessari alla crescita dell’individuo vegetale inclusi i fitormoni (cinetine, giberelline). Queste straordinarie caratteristiche portarono Pol Henry a concentrare la sua attenzione sulle supposte, e successivamente verificate, proprietà terapeutiche delle cellule embrionali vegetali. In altre parole, egli suppose che in qualche modo il tessuto giovanile vegetale racchiudesse in sé tutte le potenzialità della pianta più e meglio del tessuto adulto differenziato. Per usare le sue stesse parole: “la gemmoterapia è un sistema terapeutico basato sull’energia potenziale dei vegetali”.

Va detto subito che il ragionamento di Pol Henry fu di tipo analogico e prese le mosse da molto lontano. Dalla constatazione cioè che i vegetali per primi hanno colonizzato il pianeta  rendendo possibile lo sviluppo della vita sulla terraferma. In principio infatti l’atmosfera terrestre era assolutamente irrespirabile essendo composta prevalentemente di metano, ammoniaca, acqua ed idrogeno, tutti sottoposti a decomposizione ad opera delle radiazioni ultraviolette della luce solare non filtrata mancando ancora la stratosfera. Diversa la situazione nell’ambiente marino dove, come dimostrato da Miller in un celebre esperimento datato ormai 1935, a quelle condizioni di calore ed elettricità (numerosissimi i fulmini) spontaneamente si crearono i primi agglomerati di materiale organico tra cui aminoacidi e successivamente proteine. Così la vita si affacciò nell’ambiente acquatico marino sotto forma di protobatteri ed altre simili strutture primordiali viventi. L’evoluzione successiva portò alla formazione delle prime alghe unicellulari che rappresentarono la condizione sine qua non per lo sviluppo successivo della vita sulle terre emerse. Infatti, la capacità di produrre ossigeno per via fotosintetica, ha vieppiù arricchito l’acqua di ossigeno e quindi, data la bassa solubilità dell’ossigeno molecolare, l’atmosfera di questa molecola che, sotto la spinta delle radiazioni ultraviolette stesse, si trasformò in ozono e gettò pertanto le premesse per la formazione di quel potente filtro anti UV che è la stratosfera odierna (sempreché avremo il buonsenso di lasciarla un po’ in pace). Pertanto, se non fossero apparsi i vegetali la vita come oggi la conosciamo non sarebbe mai stata possibile.

Qualcosa di simile avvenne anche, molti milioni di anni dopo, sulla superficie terrestre, quando le prime piante a fusto come le Cordaites, oggi scomparse, mossero i primi passi di adattamento alla vita terrestre e, dopo molti passaggi evolutivi, alla comparsa delle prime gimnosperme, le conifere, e successivamente alla comparsa delle altre specie vegetali.

Tale e tanta è la nostra dipendenza dal regno vegetale che possiamo affermare senza tema di smentita che, mentre noi abbiamo bisogno delle piante per sopravvivere, le piante non hanno alcun bisogno di noi. Ancora oggi l’ossigeno necessario per la respirazione ci è fornito dalle piante e tra queste principalmente dagli alberi, che sono il più straordinario e potente trasformatore di energia fisica, la luce solare, in energia chimica, quella necessaria per tutte le sintesi di materiale organico a partire da materiale inorganico. Tutto questo è garantito dai processi fotosintetici che si svolgono nelle piante verdi grazie alla clorofilla (straordinariamente simile per altro per struttura all’eme dell’emoglobina del sangue, e alla cianocobalamina o vitamina B12, come dire il trasporto dell’energia solare è garantito sostanzialmente dalla stessa molecola). La nostra dipendenza dall’albero è testimoniata anche dal profondo significato religioso e simbolico che l’uomo gli ha dato. Il suo levarsi verso il cielo, abbinato al suo profondo radicamento, rappresenta il tratto d’unione tra mondo reale e mondo surreale, aldiquà ed aldilà, mondo essoterico e mondo esoterico, vita e morte. Gli esempi mitologici che testimoniano di quest’antichissima venerazione dell’uomo per l’albero non mancano e non fanno altro che rafforzare nel nostro immaginario l’importanza e la dipendenza che abbiamo nei confronti di questi vegetali.

Ben consapevole di tutto questo Pol Henry iniziò uno studio sistematico della foresta per cercare di trovare conferme della sua intuizione che nei tessuti giovanili vegetali in generale, ed in quelli degli alberi e degli arbusti più in particolare, dovessero nascondersi preziosissimi strumenti terapeutici. Ragionando in termini analogici, cioè cercando analogie tra il percorso evolutivo della vita sul pianeta e l’evoluzione delle foreste da un lato, e le modificazioni di ben precisi parametri ematici, in particolare delle modificazioni del quadro proteico del plasma,pensava si trovasse la chiave per la scoperta di rimedi capaci di agire in modo profondo e a livello cellulare in modo dolce e definitivo.

In altre parole, studiando l’evoluzione delle foreste dalla tundra settentrionale fino alla macchia mediterranea (resta esclusa dai suoi studi la foresta pluviale), catalogando le specie vegetali che abitano i diversi ambienti, mettendoli in relazione con le fasi evolutive della malattia, costruì un sistema terapeutico completo che per la prima volta nella storia poneva al centro non già le manifestazioni esteriori della malattia ma le sue modificazioni profonde; siamo negli anni ’50 quando Henry cominciò a pubblicare i suoi primi lavori attorno alla gemmoterapia e da allora ad oggi l’entusiasmo che si è sviluppato nei troppo ristretti circoli di cultori della medicina naturale in generale e vegetale in particolare non solo non è andato scemando ma si è accresciuto arricchendosi di nuove gemme, nuovi campi di utilizzo e nuove prospettive. Tutto ciò ci fa dire che la gemmoterapia rappresenta, a nostro giudizio, la nuova frontiera che l’uomo ha dinanzi a sé per progredire veramente nel campo della medicina. Come lo stesso Henry scrisse, infatti, “non si guarisce senza rispettare la nozione dell’evoluzione nella quale l’uomo attuale trova la sua origine nel comportamento della prima cellula, nel comportamento dei metazoi, nella vita marina degli invertebrati, dei pesci e poi nella vita all’aria dei vertebrati. Una struttura estremamente complessa come quella dell’uomo attuale è stata elaborata 600 milioni di anni fa in un ambiente marino di cui noi manteniamo il ricordo ionico”.  I più grandi trasformatori ambientali sono gli alberi, e, all’interno di essi, i loro tessuti giovanili cioè le cellule meristematiche. Allo stesso modo, se si vuole raggiungere una guarigione profonda a livello cellulare si devono utilizzare non già i tessuti adulti  differenziati ma le cellule giovani, contenenti tutta quell’energia potenziale della quale l’uomo ha bisogno per guarire veramente e non per sopprimere questo o quel sintomo. Non che Pol Henry disdegnasse completamente l’uso di tessuti adulti, semplicemente li considerava complementari ai tessuti giovanili secondo schemi rigorosi dei quali parleremo in seguito. Va detto a scanso di equivoci che la gemmoterapia non è solo una branca della fitoterapia ma una disciplina a se stante, con le sue regole e i suoi presupposti scientifici.

 

Cos’è un gemmoterapico

 

Come già detto i gemmoterapici sono derivati di tessuti giovanili vegetali in accrescimento, noti in biologia come meristemi; perciò, non solo le gemme delle piante entrano a far parte delle materie prime disponibili per il fitopreparatore che volesse cimentarsi della produzione di questi rimedi. Anche giovani radici, giovani getti, amenti entrano a pieno titolo nella gemmoterapia moderna. La caratteristica comune che deve avere la materia prima di partenza è comunque quella di appartenere ad un meristema con alcune significative eccezioni. Per questo, alcuni autori hanno suggerito di sostituire al termine gemmoterapia, troppo esclusivo non includendo derivati diversi dalle gemme e che inoltre si presta ad equivoci potendosi intendere per gemme le pietre preziose, con quello di meristemoterapia, più preciso e meno equivocabile. Tuttavia, a tutt’oggi, il termine più in voga è quello di gemmoterapia coniato per altro dallo stesso Pol Henry. Questi rimedi si ottengono a partire da materiale fresco, pulito e triturato; viene quindi messo a macerare per 4-5 giorni in contenitori impenetrabili alla luce in alcool a 90°. Successivamente si aggiunge unha miscela di acqua e glicerina in rapporto di 1:1 fino ad ottenere un prodotto finale che corrisponda a 20 volte il peso secco della materia prima di partenza. In altre parole, il rapporto droga solvente deve essere di 1:20. Questa nuova soluzione deve macerare per altre 3 settimane dopodiché si procede a decantazione e poi filtrazione. Si spreme il residuo, si riunisce il prodotto della spremitura con quello della filtrazione e si lascia il tutto a riposo per altre 48 ore. La soluzione così ottenuta è il macerato glicerico di base. Questo poi viene diluito alla prima decimale per tutti i gemmoderivati con la sola eccezione di Viscum album che è diluito alla prima centesimale.

A questo punto il gemmoderivato è pronto per il suo utilizzo e costituisce il prodotto di base nel sistema terapeutico di Pol Henry.

Nei prossimi articoli tratteremo in dettaglio la gemmoterapia dapprima secondo quella che  Henry stesso chiamò la sindrome biologica sperimentale e successivamente passeremo in rassegna altri sistemi e modalità d’impiego di questi preziosissimi rimedi.

 

(1-continua)

 

Paolo Ospici

 

Bibliografia:

F. Piterà “Compendio di gemmoterapia clinica – Meristemoterapia” De Ferrari editore

P. Henry “Gemmoterapia” Giuseppe Maria Ricchiuto editore

 

GEMMOTERAPIA

 

Introduzione alla conoscenza e all’uso degli estratti embrionali giovanili delle piante officinali

 

Breve storia dei gemmoterapici

L’introduzione dei derivati delle gemme e, più in generale, degli estratti ottenuti da tessuti giovanili vegetali, si deve al genio ed all’intuizione del medico e biologo belga Pol Henry. Si tratta non di una branca specifica della fitoterapia ma di una vera e propria disciplina avente le sue caratteristiche e peculiarità.

I tessuti embrionali vegetali, infatti, presentano caratteristiche del tutto particolari se paragonati a tessuti adulti; intanto, bisogna far notare come le cellule giovani hanno la caratteristica di essere le uniche in grado di dare sviluppo alla pianta adulta contenendo in se tutte le informazioni necessarie alla successiva differenziazione di apparati morfologicamente e funzionalmente diversi (apparato foliare, radicale, tessuto lignificato ecc). E’ noto e sperimentalmente dimostrato che un’unica cellula vegetale embrionale (detta cellula meristematica e meristema il tessuto che la contiene) può ricreare l’intero vegetale adulto. Inoltre, la cellula giovane si presenta priva di vacuolo (presente solo nella cellula adulta), ha un elevato rapporto nucleoplasmatico (cioè il contenuto di citoplasma rispetto al nucleo è molto più elevato che non nella cellula adulta), presenta un’elevata concentrazione di DNA e RNA, enzimi, protidi e tutti i fattori necessari alla crescita dell’individuo vegetale inclusi i fitormoni (cinetine, giberelline). Queste straordinarie caratteristiche portarono Pol Henry a concentrare la sua attenzione sulle supposte, e successivamente verificate, proprietà terapeutiche delle cellule embrionali vegetali. In altre parole, egli suppose che in qualche modo il tessuto giovanile vegetale racchiudesse in sé tutte le potenzialità della pianta più e meglio del tessuto adulto differenziato. Per usare le sue stesse parole: “la gemmoterapia è un sistema terapeutico basato sull’energia potenziale dei vegetali”.

Va detto subito che il ragionamento di Pol Henry fu di tipo analogico e prese le mosse da molto lontano. Dalla constatazione cioè che i vegetali per primi hanno colonizzato il pianeta  rendendo possibile lo sviluppo della vita sulla terraferma. In principio infatti l’atmosfera terrestre era assolutamente irrespirabile essendo composta prevalentemente di metano, ammoniaca, acqua ed idrogeno, tutti sottoposti a decomposizione ad opera delle radiazioni ultraviolette della luce solare non filtrata mancando ancora la stratosfera. Diversa la situazione nell’ambiente marino dove, come dimostrato da Miller in un celebre esperimento datato ormai 1935, a quelle condizioni di calore ed elettricità (numerosissimi i fulmini) spontaneamente si crearono i primi agglomerati di materiale organico tra cui aminoacidi e successivamente proteine. Così la vita si affacciò nell’ambiente acquatico marino sotto forma di protobatteri ed altre simili strutture primordiali viventi. L’evoluzione successiva portò alla formazione delle prime alghe unicellulari che rappresentarono la condizione sine qua non per lo sviluppo successivo della vita sulle terre emerse. Infatti, la capacità di produrre ossigeno per via fotosintetica, ha vieppiù arricchito l’acqua di ossigeno e quindi, data la bassa solubilità dell’ossigeno molecolare, l’atmosfera di questa molecola che, sotto la spinta delle radiazioni ultraviolette stesse, si trasformò in ozono e gettò pertanto le premesse per la formazione di quel potente filtro anti UV che è la stratosfera odierna (sempreché avremo il buonsenso di lasciarla un po’ in pace). Pertanto, se non fossero apparsi i vegetali la vita come oggi la conosciamo non sarebbe mai stata possibile.

Qualcosa di simile avvenne anche, molti milioni di anni dopo, sulla superficie terrestre, quando le prime piante a fusto come le Cordaites, oggi scomparse, mossero i primi passi di adattamento alla vita terrestre e, dopo molti passaggi evolutivi, alla comparsa delle prime gimnosperme, le conifere, e successivamente alla comparsa delle altre specie vegetali.

Tale e tanta è la nostra dipendenza dal regno vegetale che possiamo affermare senza tema di smentita che, mentre noi abbiamo bisogno delle piante per sopravvivere, le piante non hanno alcun bisogno di noi. Ancora oggi l’ossigeno necessario per la respirazione ci è fornito dalle piante e tra queste principalmente dagli alberi, che sono il più straordinario e potente trasformatore di energia fisica, la luce solare, in energia chimica, quella necessaria per tutte le sintesi di materiale organico a partire da materiale inorganico. Tutto questo è garantito dai processi fotosintetici che si svolgono nelle piante verdi grazie alla clorofilla (straordinariamente simile per altro per struttura all’eme dell’emoglobina del sangue, e alla cianocobalamina o vitamina B12, come dire il trasporto dell’energia solare è garantito sostanzialmente dalla stessa molecola). La nostra dipendenza dall’albero è testimoniata anche dal profondo significato religioso e simbolico che l’uomo gli ha dato. Il suo levarsi verso il cielo, abbinato al suo profondo radicamento, rappresenta il tratto d’unione tra mondo reale e mondo surreale, aldiquà ed aldilà, mondo essoterico e mondo esoterico, vita e morte. Gli esempi mitologici che testimoniano di quest’antichissima venerazione dell’uomo per l’albero non mancano e non fanno altro che rafforzare nel nostro immaginario l’importanza e la dipendenza che abbiamo nei confronti di questi vegetali.

Ben consapevole di tutto questo Pol Henry iniziò uno studio sistematico della foresta per cercare di trovare conferme della sua intuizione che nei tessuti giovanili vegetali in generale, ed in quelli degli alberi e degli arbusti più in particolare, dovessero nascondersi preziosissimi strumenti terapeutici. Ragionando in termini analogici, cioè cercando analogie tra il percorso evolutivo della vita sul pianeta e l’evoluzione delle foreste da un lato, e le modificazioni di ben precisi parametri ematici, in particolare delle modificazioni del quadro proteico del plasma,pensava si trovasse la chiave per la scoperta di rimedi capaci di agire in modo profondo e a livello cellulare in modo dolce e definitivo.

In altre parole, studiando l’evoluzione delle foreste dalla tundra settentrionale fino alla macchia mediterranea (resta esclusa dai suoi studi la foresta pluviale), catalogando le specie vegetali che abitano i diversi ambienti, mettendoli in relazione con le fasi evolutive della malattia, costruì un sistema terapeutico completo che per la prima volta nella storia poneva al centro non già le manifestazioni esteriori della malattia ma le sue modificazioni profonde; siamo negli anni ’50 quando Henry cominciò a pubblicare i suoi primi lavori attorno alla gemmoterapia e da allora ad oggi l’entusiasmo che si è sviluppato nei troppo ristretti circoli di cultori della medicina naturale in generale e vegetale in particolare non solo non è andato scemando ma si è accresciuto arricchendosi di nuove gemme, nuovi campi di utilizzo e nuove prospettive. Tutto ciò ci fa dire che la gemmoterapia rappresenta, a nostro giudizio, la nuova frontiera che l’uomo ha dinanzi a sé per progredire veramente nel campo della medicina. Come lo stesso Henry scrisse, infatti, “non si guarisce senza rispettare la nozione dell’evoluzione nella quale l’uomo attuale trova la sua origine nel comportamento della prima cellula, nel comportamento dei metazoi, nella vita marina degli invertebrati, dei pesci e poi nella vita all’aria dei vertebrati. Una struttura estremamente complessa come quella dell’uomo attuale è stata elaborata 600 milioni di anni fa in un ambiente marino di cui noi manteniamo il ricordo ionico”.  I più grandi trasformatori ambientali sono gli alberi, e, all’interno di essi, i loro tessuti giovanili cioè le cellule meristematiche. Allo stesso modo, se si vuole raggiungere una guarigione profonda a livello cellulare si devono utilizzare non già i tessuti adulti  differenziati ma le cellule giovani, contenenti tutta quell’energia potenziale della quale l’uomo ha bisogno per guarire veramente e non per sopprimere questo o quel sintomo. Non che Pol Henry disdegnasse completamente l’uso di tessuti adulti, semplicemente li considerava complementari ai tessuti giovanili secondo schemi rigorosi dei quali parleremo in seguito. Va detto a scanso di equivoci che la gemmoterapia non è solo una branca della fitoterapia ma una disciplina a se stante, con le sue regole e i suoi presupposti scientifici.

Cos’è un gemmoterapico

 

Come già detto i gemmoterapici sono derivati di tessuti giovanili vegetali in accrescimento, noti in biologia come meristemi; perciò, non solo le gemme delle piante entrano a far parte delle materie prime disponibili per il fitopreparatore che volesse cimentarsi della produzione di questi rimedi. Anche giovani radici, giovani getti, amenti entrano a pieno titolo nella gemmoterapia moderna. La caratteristica comune che deve avere la materia prima di partenza è comunque quella di appartenere ad un meristema con alcune significative eccezioni. Per questo, alcuni autori hanno suggerito di sostituire al termine gemmoterapia, troppo esclusivo non includendo derivati diversi dalle gemme e che inoltre si presta ad equivoci potendosi intendere per gemme le pietre preziose, con quello di meristemoterapia, più preciso e meno equivocabile. Tuttavia, a tutt’oggi, il termine più in voga è quello di gemmoterapia coniato per altro dallo stesso Pol Henry. Questi rimedi si ottengono a partire da materiale fresco, pulito e triturato; viene quindi messo a macerare per 4-5 giorni in contenitori impenetrabili alla luce in alcool a 90°. Successivamente si aggiunge unha miscela di acqua e glicerina in rapporto di 1:1 fino ad ottenere un prodotto finale che corrisponda a 20 volte il peso secco della materia prima di partenza. In altre parole, il rapporto droga solvente deve essere di 1:20. Questa nuova soluzione deve macerare per altre 3 settimane dopodiché si procede a decantazione e poi filtrazione. Si spreme il residuo, si riunisce il prodotto della spremitura con quello della filtrazione e si lascia il tutto a riposo per altre 48 ore. La soluzione così ottenuta è il macerato glicerico di base. Questo poi viene diluito alla prima decimale per tutti i gemmoderivati con la sola eccezione di Viscum album che è diluito alla prima centesimale.

A questo punto il gemmoderivato è pronto per il suo utilizzo e costituisce il prodotto di base nel sistema terapeutico di Pol Henry.

Nei prossimi articoli tratteremo in dettaglio la gemmoterapia dapprima secondo quella che  Henry stesso chiamò la sindrome biologica sperimentale e successivamente passeremo in rassegna altri sistemi e modalità d’impiego di questi preziosissimi rimedi.

(1-continua)

Paolo Ospici

Bibliografia:

F. Piterà “Compendio di gemmoterapia clinica – Meristemoterapia” De Ferrari editore

P. Henry “Gemmoterapia” Giuseppe Maria Ricchiuto editore

Erboristeria tradizionale

L’ Erboristeria Tradizionale è un’ attività commerciale concentrata sulla figura professionale chiave ovvero l’  Erborista. Oggigiorno questa professione, dedita all’ ascolto dei piccoli disturbi quotidiani e ai consigli erboristici preparati ad personam per mantenere lo stato di benessere del cliente, si è culturalmente impoverita, divenendo quasi un consigliere per l’ acquisto di creme profumate o dell’ ultima panacea “scoperta” su Internet.

Quindi è lecito porsi la domanda: ” Chi è l’ Erborista? Un professionista, un commerciante e/o un custode della Tradizione “?

La figura professionale è regolamentata  dalla legge del 6 gennaio 1931 n.99, che definisce l’ Erborista  un diplomato (oggi anche laureato) che può coltivare, raccogliere e ricavare dalle piante officinali i preparati più semplici come enoliti, oleoliti, alcoliti etc. etc., mettendo in primo piano il legame che coesiste tra le piante endemiche ed autoctone del territorio e la figura professionale .

” Nella natura tutto il mondo è una farmacia che non possiede neppure un tetto” Paracelso

Nel passato, ancora oggi nei piccoli centri abitati, era lecito trovare oltre al Farmacista anche l’ anziano/a  del paese che consigliava rimedi semplici per placare i piccoli disturbi quotidiani mediante l’ utilizzo di piante che si trovavano nell’ orticello o in campo aperto.

Chi non ha mai sentito dire da un parente più anziano che la Spaccapietra ( Ceterach officinarum ) è utile per disgregare i calcoli renali?

La tradizione erboristica infatti, oltre ad essere custodita nei grandi libri e nei ricettari antichi, è il frutto anche della cultura popolare tramandata oralmente specialmente per quelle formulazioni che prevedevano le piante officinali  che si trovavano in loco.

Quindi nell’ Erboristeria Tradizionale la pianta officinale è ingrediente fondamentale e prezioso per riproporre oggi le antiche formulazioni ( storicamente efficaci)  sia quelle custodite dai monaci e dagli speziali ( medicina colta ) sia quelle tramandate dai guaritori ( medicina popolare ).

L’ Erborista Tradizionale oltre ad essere un professionista della salute ha anche un compito più importante che è quello di preservare il patrimonio culturale mediante lo studio dei testi Antichi e la ricerca dei rimedi popolari. Egli deve quindi custodire, riproporre al cliente e far rivivere nel presente ciò che gli Antichi hanno volutamente trasmetterci affinchè la nostra salute sia preservata.

E’ ormai raro incontrare un’ Erboristeria che offra oltre 60 piante con le quali comporre una tisana in base alle differenti costituzioni poichè è più facile trovare negozi con miscele già preparate che possono creare anche effetti indesiderati, se somministrate durante una terapia farmacologica.

Quindi è opportuno che l’ Erborista tradizionale odierno deve essere capace di far coesistere le conoscenze scientifiche attuali con la tradizione erboristica la quale è basata sia sulle piante ma anche sull’ individuo e dell’ ambiente che lo circonda.

” La natura è causa e cura delle malattie” Paracelso

Erborista Tradizionale

D.ssa Carrmela Patania