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” Identik dell’ Erborista tradizionale “

Sin dall’ Antichità l’ uomo ha curato la sua salute utilizzando come rimedi le erbe spontanee raccolte nell’ ambiente vicino la propria dimora. IMG_0993

 Con il passare del tempo le virtù e la tossicità delle piante officinali furono tramandate sia oralmente ( medicina popolare ) specialmente da nonna a nipote, sia trascritte in preziosi libri grazie al lavoro certosino dei monaci ( medicina colta ); in tal modo tutti potevano godere delle loro proprietà mediante i rimedi popolari ( rimedi della nonna ) e i preparati galenici formulati dalle sapienti mani degli Speziali.

Ad oggi, l’ utilizzo delle piante officinali nei loro preparati più semplici come tisana, cataplasma, elettuario etc etc si è ridotto drasticamente per far posto ad un prodotto di facile e veloce consumo e di immediata efficacia dettato dalla frenesia dei tempi moderni, tralasciando così i veri preparati erboristici.

Infatti le tradizionali preparazioni erboristiche, che esaltavano l’ efficacia del fitocomplesso che rispecchia l’ armonica e naturale proporzione dei costituenti della pianta, vengono piano piano sostituite da prodotti aventi alta titolazione in principio attivo, allontanandosi così dal concetto “tradizionale” sino ad arrivare ad oggi ai dispositivi medici venduti anche in erboristeria.

La figura che ancora oggi preserva l’ estinguersi  della cultura erboristica è l’ Erborista tradizionale che pratica il suo mestiere con grande impegno sia in campo umano sia in quello professionale.

La custodia di questo grande patrimonio culturale comporta una continua ricerca di testi antichi ( biblioteche, mercatini ) e delle pratiche popolari cadute in disuso (la nuova generazione non é interessata ” al vecchio”) concentrando in questo mestiere l’ arte antica erboristica, un delicato tesoro che può estinguersi ad es. formulazioni tradizionali, pratiche per riconoscere la virtù della pianta fondate sul metodo dell’ analogia e della segnatura, fisiognomica etc etc.

Infatti chi esercita questo mestiere non é un semplice commerciante, ma una figura professionale che dispensa consigli erboristici “tagliati su misura” per il cliente, proprio come un sarto, in maniera tale da poter rendere il rimedio unico oppure suggerire di consultare il medico se  ritiene opportuno poiché l’ erborista non lo è e non può assumersi certe responsabilità. Così facendo si guadagna la fiducia sia del cliente sia del medico, infatti, capita che possano nascere delle collaborazioni tra l’ esperto delle piante officinali e il medico.

 

Le virtù di questo antico mestiere sono fondate: sull’ amore e il rispetto della natura che circonda l’ uomo con i suoi ritmi dettati dalle stagioni e del cosmo tramandatoci dalla sapienza antica spesso liquidata spesso come superstizione, sull’ osservazione dei segni del linguaggio non parlato, sull’ ascolto dei piccoli problemi e degli acciacchi della vecchiaia cercando di donare anche un po’ di serenità nel suo luogo di lavoro e studio magari seduti rilassandosi grazie agli odori delle piante officinali. Anche questa parentesi di serenità in un mondo nel quale invece l’uomo vive in perenne conflitto con la natura fino a sfruttarla oltre i limiti col rischio di pagarne le conseguenze, può giovare alla salute dell’uomo poiché anch’ esso è natura.

D.ssa Carmela Patania

Un caso di Medicina Popolare: la Pomata di Checcaccio

di Eleonora Zilli:

Scoprire storie lontane, di persone speciali, carismatiche, attente osservatrici immerse completamente nel proprio contesto, è un’emozione. Oggi si è portati, purtroppo, a considerarsi come estranei alla Natura, spettatori di fenomeni staccati dalla propria esistenza. Invece questa storia mi fa pensare che un tempo, in assenza di fortuna e benessere, ci si sentiva più Creature di un Tutto con cui dialogare. Quando la preghiera si mescolava alla preparazione di una medicina e la ritualità aveva un senso mistico molto potente.

La vita di Giuseppa Bazzucchi, detta Peppa del Bartolo, è la storia di una donna forte, energica e sola. Ma non nell’accezione di “senza compagnia”, bensì di indipendente e piena di vita.

Massimiliano Dragoni, suo nipote, musicista e filosofo, ha raccolto in un bellissimo libro, ricordi, racconti e testimonianze sulla vita dura ed intensa di Peppa, “accademicamente analfabeta, ma dalla cultura genuina e dalla lucidità invidiabile”1.

Vissuta tra le montagne, tra Gualdo Tadino e Assisi, “[…]apparteneva a quella generazione sopravvissuta a due guerre mondiali, alla dittatura fascista e all’occupazione nazi-fascista” e viveva in un paese di campagna. Scandendo la vita attraverso i segni della natura, vento, sole, luna e neve, cercava e trovava in essa ogni rimedio utile.

“Mettevamo i piedi nudi in un contenitore e li immergevamo nella neve fresca per aver giovamento alla circolazione sanguigna degli arti inferiori.”

“La pozione magica, spesso e volentieri, diventava una bevanda fresca a base di decotto di malva” per fastidiose e improvvise indigestioni.

“[…]La vidi fustigarsi come un battitore del Venerdì Santo in qualche paese dell’entroterra campano, con un mazzetto di ortica.” Irritando la cute stimolava la circolazione sanguigna, nei problemi di vene varicose.

E la pomata de Checcaccio, unguento a base di sambuco, è un medicamento di cui si è tramandato oralmente dal sensale Checco de Biagioni, di Santa Maria di Lignano, a Ginetta de Frustavento, che

tramite l’Emilia de Fiana arrivò all’”esperta erborista appenninica, Giuseppa Bazzucchi”. E’ da ricordare che, ai tempi, il medico raggiungeva difficilmente e sporadicamente la montagna, per cui nella comunità spiccavano figure sciamaniche e dedite alla medicina popolare. Tra l’altro Peppa si occupava dei parti in casa.

Ogni anno tra la metà del mese di settembre e i primi dieci giorni di ottobre, avveniva la preparazione della suddetta pomata: la pomata del poro Checcaccio, come Peppa la chiamava.

“Quando in casa si procedeva alla preparazione, nonna non amava né confusione né tanto meno domande inopportune, tutto doveva procedere secondo un rituale semi alchemico, che lei conduceva con maestria”. Ed ecco la ricetta originale in dialetto, da una registrazione:

Pe fa la medicina tocca pià el sambuco ‘lla pè settembre, tocca scartoccià el sambuco e arcapà le foje e la scorsa. Quando che l’è scartocciato, ‘l mette ‘nto na busta de plastica, e doppo ‘nto la mattera. Quando che se ‘ncomincia a fracià, el cave. Doppo serve l’olio d’uliva, l’olio bono, el mele e la cera d’ape. Prima fè bollì l’olio col sambuco, la cera e tre cucchiaie de mele, quando che l’è bollito spigne el foco e prepare ‘n pentolino coll’acqua ghiaccia. Arcape el sambuco e butte tutto n’to l’acqua, la lave, cave l’acqua e ce l’armette; ce fè nove volte.2

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“Perché nove volte? Perché tre volte tre? Il nove è il numero ottenibile sommando tre volte il numero perfetto tre, numero dall’alone mitico, divino per la religione cristiana e magico in epoca arcaico-greca. Numero ottenibile allo stesso modo moltiplicando il numero tre per se stesso, la perfezione moltiplicata per la perfezione stessa. E’ il numero che per la religione cristiana dimostra l’essenza stessa della perfezione divina: ternari signat misteria trinitas.”

“Durante il lavaggio, Giuseppa parlava una lingua a dir poco incomprensibile, prima di tutto a causa del volume, molto tenue, in secondo luogo, perché si trattava di una sorta di nenia in latino.[…]ogni volta mi spiegava che ognuno dei “dottori” aveva la sua versione per accompagnare le ultime fasi della ricetta.”

Impiegata per le infiammazioni alla gola, punture d’insetto, acne, problemi cutanei dei piedi, emorroidi, ferite ed infezioni, la pomata del Checcaccio fortunatamente è giunta fino a noi grazie a persone come Massimiliano Dragoni che, come gli erboristi tradizionali, vedono e cercano nel passato una fonte preziosa di conoscenza, d’ispirazione e continuità con il presente.

1 Tutte le citazioni da: Massimiliano Dragoni, La Pomata de Checcaccio, Era Nuova, 2008

2 Per la preparazione della medicina, occorre raccogliere del sambuco in settembre; bisogna separare la corteccia e metterla, insieme ad alcune foglie, in una busta, meglio se di plastica, e conservarla in una dispensa. Nel momento in cui il sambuco inizia la fase della macerazione è pronto all’uso. Occorre procurarsi dell’olio d’oliva, olio extra-vergine, del miele e della cera d’api. Prima si fa bollire l’olio con il sambuco, la cera e tre cucchiai di miele; una volta bollito si spenge la fiamma e si prepara un altro pentolino con dell’acqua a temperatura ambiente. Si versa il contenuto del pentolino, nel recipiente con l’acqua, filtrando il sambuco, si lava il contenuto formatosi – che sarà piuttosto solido, dato il contrasto delle differenti temperature – si toglie l’acqua; si ripete l’operazione nove volte.

Eleonora Zilli